martedì 3 febbraio 2015

GESU’ AL TEMPIO LA GIOIA DELLA SPERANZA

 Gesù al Tempio Potremmo prendere come tema base della nostra riflessione quello della speranza. Infatti, il vangelo ci presenta due personaggi che poi non incontreremo più nel corso del racconto e la loro funzione è solo quella di mostrare come, prima dell'arrivo del Signore, c'era qualcuno che era in attesa di questa salvezza. Quest'ultima arriva ed è possibile solo per chi è già in attesa. Chi non sa attendere, non sa  mettersi in ascolto, in stato di accoglienza, e quindi non può incontrare nulla e nessuno. È il grande problema della nostra società secolarizzata: non desideriamo e non attendiamo più nulla, perché la tecnologia e il commercio ci hanno portato a desiderare solo cose molto, molto più concrete, che cambiano velocemente e quindi sappiamo attendere l'uscita del prossimo modello di cellulare o di versione di un software, ma non sappiamo metterci in ascolto dei bisogni più profondi, quelli veri, e quindi non ci impegniamo in un cammino di fede che chiede orizzonti vasti e tempi lunghi. Simeone ed Anna invece attendono tutta una vita, il loro è un atteggiamento di continua devozione che non compiono per bigottismo ma perché questo garantisce loro un'attenzione, una capacità di vivere bene ogni giorno della propria vita e quindi di non disperdere quel dono prezioso che è la vita. In questa prospettiva di fede ritroviamo anche la Legge che si configura esattamente come sostegno a questa speranza quotidiana. La Legge infatti, se ben compresa, non è l'esecuzione pedissequa di una infinita serie di regole ma il tentativo di insegnare, per ogni situazione della vita (ecco perché la moltitudine di comandi), il giusto comportamento. Il tema della Legge è importante perché lo ritroviamo all'inizio ripetuto più volte1 . Questo vuole mostrare che anche i genitori di Gesù erano gente 'in attesa', che seguendo le regole di Dio vivevano per evitare di disperdere i doni che provenivano da lui. Una di queste regole è quella della di aspettare 40 giorni per offrire un sacrificio a Dio per il figlio che va 'riscattato': è questa una regola che noi moderni facciamo fatica a comprendere ma per la logica di un pio ebreo di allora la vita è una cosa sacra e appartiene a Dio. L'uomo ha vita solo grazie a Dio, perché l'esperienza umana, storica, insegna che la vita in verità tende a deperire, a sparire. Se arriva una vita (in particolare nel caso del primo figlio/a, un primogenito), la Legge prevedeva che questo figlio andasse 'riscattato'2 . L'idea teologica che stava alla base di questo gesto è che Dio, in Esodo, nella liberazione d'Egitto, aveva dovuto sacrificare dei suoi figli, i primogeniti degli egiziani, per riuscire a far uscire da quel paese il suo popolo, quello 'eletto', quello che per Dio era un 'figlio'3 . Ma come 'rendere' a Dio il 'caro prezzo' da lui pagato per riscattare con l'Esodo il suo figlio Israele? Il Dio biblico non ha mai 1 Lo ritroviamo anche alla fine: lo stesso verbo usato per dire che la 'legge viene compiuta, riempita' è usato per Gesù che, si dice, si riempio di 'sapienza e grazia'. Questo significa che anche Gesù, proprio vivendo la Legge di Dio, impara quella pienezza che poi è iscritta nella Legge ma va oltre; il vero sacrificio non sarà quello di colombe e tortore ma quello della propria vita. 2 Nm 18,16 3 Si pensi alla citazione “Dall'Egitto ho chiamato mio figlio”, che Mt applica a Gesù nei suoi vangeli d'infanzia ma che evidentemente è l'applicazione al Messia di quella che era una categoria per tutto il popolo d'Israele. chiesto sacrifici umani (Gn 22 vuole proprio dimostrare che Dio ferma la mano di Abramo su Isacco) e quello che chiede non è un sacrificio gravoso. Conta più il gesto che 'il prezzo' (anche perché, nel caso della vita, si entra nel campo del 'sacro' che è impagabile). E due poveri come Maria e Giuseppe possono versare il loro semplice contributo che è fatto soltanto di due tortore o due colombe (l'offerta prescritta per i poveri). Questo antico gesto, dunque, si iscrive perfettamente nella festa per il dono della vita che ricordiamo. Ma nel caso di Gesù, avviene qualcosa di speciale. Mentre normalmente il sacrificio era una cosa che l'uomo faceva per Dio nel Tempio, ora invece la prospettiva si capovolge. Gli interventi di Simeone e di Anna mostrano la loro lode per il dono che Dio fa all'uomo. Il Vangelo non si concentra più sul Tempio ma parla piuttosto di Gerusalemme (a cui viene data una 'redenzione', “λύτρωσιν Ἰερουσαλήμ”). E questa è fulcro per una salvezza riservata a tutti i popoli e a tutte le genti, come dice Simeone. In Gesù è Dio che offre un nuovo sacrificio. La liberazione, già pagata a caro prezzo in Esodo, verrà rinnovata, e questa volta sarà per tutti. Sarà un salvezza non compiuta con un giudizio di condanna, ma sarà svolta da un sacerdote speciale, come dice la lettura di Ebrei. Il sacerdote, per definizione, era qualcuno di 'santo', nel senso di distaccato, di diverso dal mondo; proprio in virtù della sua diversità poteva interagire con Dio che era concepito come il 'Totalmente Altro'. Questa idea, per quanto bella, creava però una distanza che, Paolo dirà, ha sempre ristretto a concepire la Legge come una cosa impossibile, perché l'uomo non riusciva mai a superare questa distanza. E la Legge, prima di Gesù, non risultava che essere un verdetto di condanna, una possibilità 'impossibile', e quindi frustrante. In Gesù invece Dio si mostra come colui che supera questa distanza, che si avvicina all'uomo fino a entrarne nella carne. La santità di Dio non si dimostra sono nella distanza, nel distacco, nella diversità dall'uomo; lui è diverso proprio perché ama quell'umanità fino in fondo, perché la trasforma dall'interno mentre l'uomo ricorreva a interventi 'deontologici' esterni, a prestazioni che si auto-imponeva più per la propria voglia di perfezione che non per amore per Dio e per il prossimo. La purificazione che serve per avere dei sacerdoti 'perfetti' (quella che Malachia prospetta nella prima lettura) avviene per chi imparerà a seguire la sapienza del Bambino Gesù, che non è un intervento immediato. La conclusione del Vangelo ci ricorda che perfino Gesù compie un lento cammino di crescita (“in sapienza e grazia”, non in altre categorie inutili). E questo cammino è offerto a noi nel confrontarci con Gesù che si presenta come un 'segno', un significato tutto da interpretare: “σημεῖον ἀντιλεγόμενον” (“segno di contraddizione”). Di fronte a questo Gesù, segno di Croce, il nostro cuore deve svelare tutti i suoi pensieri, re-imparare la sacralità della propria e della vita degli altri, ritornare a ripensare a Dio e a se stesso per fare della sua vita un sacrificio veramente 'gradito al Signore'. Quale sia il sacrificio che possiamo rendere a Dio per 'riscattare' la nostra vita, per ringraziarlo del dono fattoci e per farla diventare un dono per gli altri, questo è un compito che sta a ciascuno discernere.

Senza di te Dio non può farsi compagno della tua vita. Lui attende un tuo cenno per donarsi.

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