domenica 23 agosto 2015

VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?

CHIAMATI PER RIMANERE CON LUI…

VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?





Voglio iniziare questa riflessione partendo da un brano di Giovanni che troviamo al cap.6 versetti56,57: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue,rimane in me  e io in lui. Come il Padre,che ha la vita,ha mandato me e io vivo per il Padre,così anche colui che mangia me vivrà per me. Infatti questa pericope evangelica va letta nel suo insieme e collegata  ai vv Gv 6,60-69.
Mettiamoci dalla parte dei discepoli,che ascoltano Gesù con queste parole pronunciate nella sinagoga di Cafàrnao. Immaginiamo tutto il loro disorientamento e sconcerto. Di un discorso così complicato,forse afferrano solo un’indicazione e una direzione per la loro vita : quella di rimanere,di restare attaccati al loro Maestro.
Il verbo rimanere è uno dei più importanti  e ripetuti nell’intero vangelo di Giovanni.Se da una parte può richiamare il dimorare,il mettere radici,il restare tenacemente attaccati a qualcuno,come la vite ai tralci(cf Gv15),più profondamente ci fa entrare nel mistero del completo abbandono del discepolo al Maestro. Attenzione,qui il verbo rimanere non indica uno sforzo di volontà,quanto il lasciarsi Abitare,l’essere incorporati,visitati,trasfigurati. Rimanere è più che resistere,è lasciarsi plasmare da una grazia che viene dall’alto.
Vediamo all’ora come questo verbo rimanere,se riletto nella sua profondità non solo esegetica ma motivazionale,ci apre a un orizzonte di discepolato che nulla ha a che veder con quello a cui siamo stati abituati a credere e  a vedere.
Essere discepoli,non è fare qualcosa,non è comportarsi secondo un’etica,ma vivere una relazione esistenziale: il discepolo inizia e finisce il suo cammino di vocazione imparando e rimanendo con Gesù.
La difficoltà dei discepoli di allora è la medesima dei discepoli di oggi.
Se dovessimo descrivere il cuore della vita cristiana,forse saremmo tentati di accentuare le dinamiche del fare,dell’operare,dell’agire. Ecco che essere cristiani diventa fare qualcosa per gli altri,comportandosi secondo un certo codice morale,obbedire a determinate leggi,partecipare a riti e celebrazioni ben stabiliti. difficilmente ci verrebbe da raccontare che l’essere discepoli è semplicemente rimanere con Gesù.
Di fatto,anche la celebrazione dell’Eucaristia sembra non giustificarsi da sé,e quindi aver bisogno di altre motivazioni che ne spieghino la necessità.
Dobbiamo riflettere molto e quotidianamente su questo rimanere,con Gesù,altrimenti vanifichiamo il tutto della vita e dell’essere cristiani. La celebrazione cristiana e la preghiera ecclesiale sono,in primo luogo il momento più alto e specifico del nostro stare con il Signore.<per ascoltare la sua parola,ricevere il suo insegnamento,progredire nella scuola dell’imitazione e della sequela. In questo senso,questo modo della relazione con il Signore deve ritrovare la sua ragione di fine e non consumarsi nella sua ragione di mezzo. Esiste anche un ‘ossessione strumentale dell’ascolto della Parola,della fraternità condivisa,della celebrazione spirituale(in qualsiasi forma),che la vive destinandola a una utilità apologetica o proselitistica,che sembra rappresentare il vero obiettivo. Il ministero e la vita cristiana sono ambiguamente affollati dall’interrogativo della comunicazione,dell’attrazione,dell’aggregazione,della partecipazione,del recupero:Si prega per ricaricarsi,si medita per motivarsi,si studia per rispondere,si celebra per cogliere occasioni di recupero,riavvicinamento,riconquista. Questo nervosismo propagandistico e questa eccitazione del consenso,distraggono dalla qualità della fede,allontanano dalla trasparenza della missione e corrompono il loro stesso obiettivo apostolico. Il momento della sosta e del legame con il Signore è attraversato troppo rapidamente,come pensando ad altro. La relazione con il Signore non è presa  sul serio per se stessa, non produce neppure la necessaria correzione  delle nostre ingenuità: manca di spessore,di adorazione,di contemplazione,di apertura alla realtà escatologica,della sua verità e della sua destinazione. Più che la speranza cristiana che segue la logica della semina  e non del raccolto,mostra il volto grossolano della ricerca di una conferma di breve respiro e di immediata visibilità.

Non solo Giovanni ma anche i sinottici ,sottolineano il primato del restare con Gesù rispetto perfino alle esigenze della  stessa missione. Nel racconto dell’istituzione,Marco,dice che Gesù chiamò a sé quelli che voleva…perché stessero con Lui. Il mandarli  a predicare,con il potere di scacciare i dèmoni,appare successivo nel tempo e in ordine di importanza,rispetto all’indicazione che vede i dodici,in profonda intimità con il Maestro( cfr Mc 3,1-15 ).Tutta la vita dei discepoli ruota attorno a questo punto focale: parte dallo stare con Lui come la sorgente di ogni missione; vive ogni gesto in comunione con la sua presenza che precede e guida;torna ogni volta a questa relazione di intimità,per consegnare nelle sue mani ogni gioia e ogni fatica,ogni successo e ogni fallimento.
Anche l’evangelista Luca nella pericope evangelica 10,38-42,sottolinea questo stare con Geù.
Si tratta di una icona molto suggestiva del discepolato: stare ai piedi di Gesù,pendere dalle sue labbra,restare incantati per la sua presenza. Carissimi,dobbiamo entrare in questa dimensione interiore per comprendere il nostro cammino personale,allora celebrare ci  insegna a stare correttamente alla presenza di Gesù in tutte le sue dimensioni.
Dentro questa dinamica di cammino con il Maestro ci accorgiamo che lo stare con Lui significa rimanere sempre dentro le uniche due mense che ci portano a Lui,quella della Parola e dell’Eucaristia. Essere discepoli non è possibile nell’ignoranza della scrittura,che non è solo disquisizione esegetica, ma metabolizzazione personale.
Non basta mangiare il pane per essere credenti.
Cè modo e modo di mangiare,non sempre mangiare il pane che Gesù dona,porta alla fede. Qui si misura la qualità della vita biologica e spirituale. lo vediamo nel modo di nutrirsi ,si mangia male,e nel modo di cibarsi si svelano le nostre inquietudini e la nostra umanità malata. Il modo di mangiare distorto,è quello di chi brama con concupiscenza il cibo senza nutrirsi,ma semplicemente riempiendo un vuoto. Tanto che Paolo riconduce tutta la legge in questo divieto di desiderare con concupiscenza(Rm 7,7)che è il modo con cui il primo giorno,nel giardino,Adamo si è lasciato attrarre dal cibo offerto dal serpente.Al di la della simbologia biblica ,questa immagine ci aiuta a cogliere un passaggio fondamentale: Mangiare avidamente è possedere anziché ricevere,placare un vuoto,più che riconoscere una relazione,che possa nutrire la vita. Diventa più chiara la relazione profonda tra il mangiare e il credere. Sedersi alla mensa del miracolo dei pani può rappresentare un passo verso la fede,solo se si impara a mangiare nel modo della fede. Occorre ritrovare il senso simbolico del prendere il cibo,che attraversa tutti i vangeli e la vita stessa di Gesù.Egli ama i banchetti,siede volentieri a mensa con i discepoli e con i peccatori, a tavola regala a i suoi commensali le parole più belle,le parabole più significative,i gesti di accoglienza più sconcertanti. E’ evidente nei vangeli,il ruolo centrale del sedersi a tavola. E’ qui che Gesù si rivela,si dona e gli uomini lo riconoscono,lo accolgono,si nutrono di Lui. Ma occorre lasciarsi plasmare dallo stile conviviale di Gesù,dal suo modo di stare a tavola. Il pasto diventa non un’occasione estrinseca per fare dei discorsi,ma uno stile di vita,quello di Gesù,che deve essere assimilato,digerito,interiorizzato,metabolizzato. D’altra parte è questa un’esperienza originaria dell’essere umano; stare a tavola plasma la vita. Mangiare è assimilare significati e non solo ingerire delle cose. Se invece qualcuno si appropria di cose per sé,tradisce il senso della comunione che il pasto istituisce e alla fine non si nutre,non fa crescere la sua fede e i suoi legami,né con il Signore né con i fratelli. Non è una caso che il grande comando che il Signore lascia ai suoi discepoli è quello di sedersi ripetutamente a tavola e di ripetere il gesto di mangiare insieme il pane,di nutrirsi gli uni gli altri con il pane della vita .Perché il cammino dei discepoli consiste proprio in questo, stare a tavola con Gesù,in tutti i suoi banchetti fino alla fine,fino all’ultimo pasto,quello dove egli lascia in testamento tutta la sua vita, il suo corpo e il suo sangue,il dono della sua umanità. Stare a tavola fino alla fine ,non alzarsi dalla mensa,come ha fatto Giuda,non fuggire quando le parole sembrano indigeste,ma fidarsi di Gesù e lasciare che il suo cibo, la sua umanità ci plasmi e ci trasformi. Il cammino del discepolo passa di tavola in tavola,da Cafàrnao a Gerusalemme,fino a Emmaus,fino alle nostre assemblee,dove ripetiamo il gesto di prendere il pane dalle mani di Gesù,perché la nostra fede non si perda. celebrare l’Eucaristia per un discepolo non è un dovere da assolvere,ma una cammino da compiere. La memoria dei pasti di Gesù,plasma la fede,nella ripetizione dei gesti e parole,che devono essere assimilate,diventare carne della nostra carne ,dando forma nei discepoli,all’umanità di Gesù. Proprio mangiando il pane nel nome di Gesù,si impara che non di solo pane vive l’uomo.
Volete andarvene anche voi?

Il finale dello stare con Lui si traduce in una provocazione di Gesù stesso come leggiamo in Giovanni 6,66-71. Un finale sorprendente. Dopo l’esperienza  della vicinanza  e della sequela di Gesù,delle folle e delle guarigioni,il clima cambia radicalmente. Se l’inizio del discepolato era stato segnato dalla gioia di seguire il Maestro,proprio all’apice della sequela si apre una crepa che porta a una caduta. Nei sinottici,questa cesura è evidenziata  in modo particolare. Dopo il miracolo dei pani,dopo la confessione di Pietro,inizia la seconda fase del cammino del discepolato,quello verso Gerusalemme,una strada nella quale i discepoli avanzano stentatamente,sempre più segnati dalla fragilità,che sembra mettere in luce una fede debole,che porterà alla fuga,di fronte alla passione. Il cammino del discepolo non pare affatto un’ascesa lineare,verso l’alto,ma paradossalmente verso il basso. Si tratta del paradosso della fede. Progredire nella fede non poggia sulle nostre forze,ma chiede di conoscere tutte le nostre fragilità. Solo nello scoprire che non ce la facciamo ad andare avanti,accade che lasciamo spazio all’opera di Dio,che ci porta con sé,che ci sostiene. Credere non è vivere senza l’ombra del dubbio,credere significa sostenere i dubbi,o meglio scoprire qualcosa che ci prende per mano,nel buoi delle nostre incertezze.
Per questo sembra che Gesù non faccia nulla per trattenere  i discepoli e quasi li sfida ad andarsene. Non seduce,non abbassa il livello della proposta per paura di perdere i consensi,piuttosto quasi il contrario. Alza la pasta in gioco e rilancia la sfida della fede. Certo seguire il Maestro apre alla vita,dischiude orizzonti vasti quanto il cielo ,ma la direzione di questa apertura non è nelle mani dei discepoli. Anzi dovranno accettare d’essere condotti su strade che loro non pensavano e non volevano. Credere è abbandonarsi. Credere è legarsi a una persona viva,senza sapere dove questo affetto potrà portare. Credere significa rimanere soli davanti al Maestro senza nessuno e senza appigli,senza altre strade,rinunciando ad ogni uscita di sicurezza. Nel vuoto della solitudine del cammino ci rimane solo la Parola, e il sedersi a tavola,per ricevere da Lui il Pane della vita.
+ Mario Metodio