venerdì 26 dicembre 2014

Divina liturgia con gli artisti Broni Pavia





IL VALORE CRISTIANO DEL NATALE

 Il Signore, nella Sua Sapienza non ha voluto farci conoscere il giorno esatto della nascita del Salvatore e persino l’anno è incerto.
A seguito a nuove ricerche e nuovi elementi storici, è stato scoperto l’errore di calcolo commesso dal monaco Dionigi il Piccolo, quando formulò il primo calendario con la cronologia cristiana, nel 525 e fissò la data di nascita di Cristo nell’anno 753 dopo la fondazione di Roma. Ma gli studiosi sono in accordo sul fatto che tale data andrebbe anticipata di alcuni anni e posta intorno al 749-48. In questo modo la nascita del Cristo si collocherebbe tra il 4 o il 5 a.C., 750 anni circa dopo la fondazione di Roma.
Possiamo dedurre inoltre, e ritenere con certezza, che Gesù non nacque in inverno poiché i pastori che vennero avvertiti dagli angeli dell’evento prodigioso della nascita del Messia dormivano all’aperto: "Ora in quella stessa regione c’erano dei pastori che dimoravano all’aperto nei campi, e di notte facevano la guardia alloro gregge" (N.D. Luca 2:8).
Non era certamente costume dei pastori Israeliti passare la notte all’addiaccio, durante l’inverno palestinese che è sufficientemente rigido per impedirlo. È appurato che molti hanno scelto neI 25 dicembre una data convenzionale per ricordare la nascita del Salvatore. Questo non è da condannare, sebbene ci si renda conto che ciò non corrisponde alla verità. In ogni caso, il cristiano che riconosce nella Parola di Dio l’unica fonte di verità, giustizia e bene per la propria anima, si sente libero dall’osservanza di giorni stabiliti, stagioni ed altre ricorrenze rituali perché sa che l’esteriorità delle feste soppianta lo spirito che in origine le ha fatte nascere.
Ecco cosa afferma Gesù riguardo alle tradizioni:
Matteo 15:3: "Ma egli rispose loro: "E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio a motivo della vostra tradizione?
Matteo 15:6: "Così avete annullato la parola di Dio a motivo della vostra tradizione.
Marco 7:9: "Diceva loro ancora: "Come sapete bene annullare il comandamento di Dio per osservare la tradizione vostra!
Nella Bibbia, le uniche feste da celebrare, con delle ricorrenze ben precise, si trovano scritte soltanto ed unicamente nell’Antico Testamento. Tali festività, quali ad esempio: lI giorno del riposo (Shabbath o sabato); La Pasqua; La festa dei Pani Azzimi; La Pentecoste; Il Giorno delle Espiazioni; etc.., descritte nel libro del Levitico al cap. 23, hanno l’unico scopo di presentare figurativamente e profeticamente la persona e l’opera di Gesù Cristo, ed in Lui soltanto hanno adempimento. Pertanto una volta adempiuta l’opera ed il ministerio di Cristo esse non hanno più valore né soprattutto necessità di essere osservate.
L’apostolo Paolo, scrivendo a tal proposito ai credenti della Galazia che si erano lasciati convincere sulla necessità di osservare certe festività religiose giudaiche, ricorda loro che quando erano nel paganesimo: "Per la vostra ignoranza di Dio, eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono; ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? Voi, infatti, osservate giorni, mesi, stagioni e anni! Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo (vers. C.E.I. Galati 4:8-11).
Il racconto che il Vangelo di Luca ci fa dell’annuncio della nascita del Salvatore ai pastori di Betlemme, ci aiuta a scoprire qual è il vero spirito del Natale e come deve essere ricordato l’evento glorioso dell’incarnazione di Dio.
Leggiamo Luca 2:8-20: In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: "Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: "Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia"". E a un tratto vi fu con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva: "Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e pace in terra agli uomini ch'egli gradisce!" Quando gli angeli se ne furono andati verso il cielo, i pastori dicevano tra di loro: "Andiamo fino a Betlemme e vediamo ciò che è avvenuto, e che il Signore ci ha fatto sapere". Andarono in fretta, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia; e, vedutolo, divulgarono quello che era stato loro detto di quel bambino. E tutti quelli che li udirono si meravigliarono delle cose dette loro dai pastori. Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo. E i pastori tornarono indietro, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato loro annunziato".
È la buona Notizia (Evangelo) di una grande gioia (v.10)
Cos’è che ti riempie di gioia in questi giorni? Il pensiero di ciò che farai o la considerazione di ciò che Dio ha già fatto per te? Sarà forse l’emozione di qualche momento trascorso tra gli amici, l’incontro atteso con una persona cara, o la consapevolezza di aver ricevuto un impareggiabile dono divino che dimora in te? Lo sai che: "Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il Suo Unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca ma abbia vita eterna" (Giovanni 3:16).
Quale effetto ti procura pensare che Dio è venuto nel mondo come un uomo per stare tra gli uomini e per salvare gli uomini dalla morte eterna mediante una morte vergognosa e atroce?
È un occasione per glorificare Dio (v.14).
Il giorno di Natale, quale sarà la tua principale occupazione? Loderai il Signore e lo glorificherai per ciò che ha fatto per te e per l’immenso beneficio che è derivato dalla sua umiliazione e dal suo amore? Oppure, dopo aver messo a tacere la tua coscienza, adempiendo il tuo dovere religioso più o meno sinceramente, ti assoderai a fare cose che non sono né utili, né onorevoli e, spesso addirittura offensive verso Dio stesso e  il tuo prossimo?
È un occasione per testimoniare e per crescere nella fede (v.17-20).
I veri cristiani approfittano d’ogni occasione per parlare a tutti di ciò che il loro Signore ha fatto e della Grazia che hanno ricevuto. Come fecero i pastori, essi "divulgano quello che era stato loro detto di quel bambino; e come loro, tornano rinforzati ed edificati nella loro fede: "E i pastori tornarono indietro, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, come era stato loro annunziato".
Se queste feste passeranno e ci lasceranno come ci hanno trovato, se anche questo Natale trascorrerà senza che il nostro cuore si sia avvicinato di più al Signore, senza che la nostra anima, sia stata resa più conforme all’esempio del Salvatore...allora avremmo perso il nostro tempo, e il Signore stesso non gradirà per nulla la nostra devozione, superficiale e tradizionale.
Anticamente, tramite il profeta lsaia, il Signore mostrò di non gradire l’adorazione ipocrita del Suo popolo e disse: "Smettete di portare offerte inutili; l'incenso io lo detesto; e quanto ai noviluni, ai sabati, al convocare riunioni, io non posso sopportare l'iniquità unita all'assemblea solenne. L'anima mia odia i vostri noviluni e le vostre feste stabilite; mi sono un peso che sono stanco di portare. Quando stendete le mani, distolgo gli occhi da voi; anche quando moltiplicate le preghiere, io non ascolto; le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete davanti ai miei occhi la malvagità delle vostre azioni; smettete di fare il male; imparate a fare il bene; cercate la giustizia, rialzate l'oppresso, fate giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova! "Poi venite, e discutiamo", dice il Signore: "Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come la lana" (lsaia 1:13-18)
Cosa farai in questo Natale ora che anche tu conosci la verità? Che atteggiamento userai davanti agli altri: ipocrita o schietto e sincero? Che cosa intendi festeggiare? Adesso cosa ritieni sia più giusto: conformarti all’idea comune, o uniformarti alla volontà di Dio?
È meglio fare una cosa giusta per un motivo sbagliato, o una cosa sbagliata per un motivo giusto?
Al di là delle frasi enigmatiche, se siamo persone che si lasciano guidare dalla riflessione e che quindi possono essere definite ragionevoli, dovremmo individuare la ragione giusta delle cose e agire di conseguenza. Fare quello che crediamo sia giusto per noi assottiglia la ragionevolezza e l’avvicina all’istinto, più consono alla natura animale: "La riflessione veglierà su di noi e ci farà evitare il male proteggendoci" (Proverbi 2:11).
Un cristiano deve sempre scegliere e preferire tra tutto quello che vede, ascolta o gli viene proposto, immancabilmente ciò che è giusto agli occhi di Dio.
La Bibbia dice: "Poiché l'orecchio giudica i discorsi, come il palato assapora le vivande" (Giobbe 34:3,4).

Scegliamo quello ch’è giusto, riconosciamo fra noi quello ch’è buono. Amin.

domenica 14 dicembre 2014

NATALE degli ARTISTI 2014

      NATALE degli ARTISTI
 2014
La Diocesi Antico Cattolica in Italia e l'Associazione Artistico Culturale
       "La Tavolozza " di Broni
Vi invitano
alla Celebrazione di Natale presieduta
da S.Em. Mons. Giovanni Climaco Mapelli Arcivescovo Primate e
S.E. Mons. Mario Metodio Cirigliano Vescovo Ausiliare.
Durante la Cerimonia verranno consegnati gli Attestati di merito per gli Artisti delle Mostre dell'anno 2014.
DOMENICA 21 DICEMBRE 2014 alle ore 16,00 presso il NUOVO CENTRO POLIFUNZIONALE CULTURALE del COMUNE di BRONI ( Pavia)   Viale Matteotti
al termine verrà offerto dall'Associazione un buffet

per inf. 338. 1354653  - 338. 887 1982

domenica 7 dicembre 2014

La Vergine Maria nella spiritualità orientale

La Maternità di Maria nell'antica tradizione bizantina


LA MADRE-VERGINE
L'annuncio che Dio si era «fatto uomo», era morto per noi e risorto, costituiva il cuore del kerygma primitivo lanciato come squillo su tutta la terra. L'eterno consiglio
del Padre questo aveva decretato ed attuato per noi: non però secondo le leggi comuni di natura, ma in un modo nuovo e divino.
I simboli «apostolici», i simboli cioè tradizionali delle chiese sparse nel mondo, hanno tutti professato, con mirabile consonanza, il concepimento e la nascita verginale di Cristo:
“Il ferro è nero e freddo; ma quando è arroventato prende la forma del fuoco; diventa lucente, ma non annerisce il fuoco; diventa incandescente, ma non raffredda la fiamma ...».
«Nato da Maria la vergine», «nato per opera di Spirito santo da Maria la vergine», «generato da Spirito santo e da Maria la vergine», «concepito da Spirito santo , nato da Maria la vergine», «disceso dai cieli ed incarnato da Spirito santo e da Maria la vergine e diventato uomo» ...
Origene nel III secolo non dubitava di affermare:
«A tutto il mondo è nota la predicazione cristiana, più degli assiomi dei filosofi. Chi infatti ignora la nascita di Gesù da una Vergine, la sua crocifissione, la sua risurrezione? ...».
È la prima e basilare professione cristologico-mariana, il protodogma da cui tutto dirama e fiorisce: include e congiunge l'iniziativa libera e gratuita di Dio e la persona
umana di Maria, nel suo più alto atteggiamento di accoglienza e di donazione di sé: la sua verginità. Nessuno infatti poteva costringere Dio a chinarsi su di noi peccatori e disgregati dal male, nessuno meritava che egli intervenisse a nostro favore: soltanto la sua tenerezza e pietà infinita lo indusse a mandarci come salvatore l'unico Figlio. Questa iniziativa misericordiosa e gratuita di Dio si rivela e si compie con l'azione fecondante dello Spirito santo su una carne vergine ed una persona vergine, Maria: ne sono interamente esclusi l'iniziativa e l'apporto biofisico dell'uomo. «Non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo (maschio), ma da Dio egli è stato generato» (Gv 1,13). Il testo giovanneo, commentato in tal senso dai primi Padri, pone Cristo in una sfera di singolarità, fuori dal nostro modo di nascere: la sua generazione umana secondo la carne ha come primo principio l'intervento divino: egli è «generato da Dio».
Conseguentemente la verginità di Maria viene innanzitutto contemplata nel momento dell'annunciazione, nell'istante in cui diviene divinamente feconda, ma di una fecondità libera ed umana, cosciente e responsabile. Essa tuttavia comporta, come preparazione che i Padri antichi vedono indispensabile, la verginità di cuore e di vita, e include la susseguente perpetua consacrazione verginale al -,piano di Dio in Cristo. «Nato da Maria, la vergine»:
l'articolo determinativo, che tutti i simboli prepongono all'appellativo «vergine», mostra in qual senso la chiesa delle origini riguardasse la persona di Maria: nella sua qualità unica ed irrepetibile di «vergine»: la vergine per antonomasia, la vergine predetta nei testi profetici, compendio della spiritualità di Israele, preludio della verginechiesa.
Per questo Ignazio di Antiochia cataloga la «verginità» di Maria (nel contesto si intende il verginale concepimento di Cristo) fra i maggiori portenti di Dio:
«Il nostro Dio Gesù Cristo fu portato in seno da Maria, secondo l'economia di Dio, (generato) da seme di David e da Spirito santo; e nacque e fu battezzato, per purificare l'acqua con la sua passione. E rimase occulta al principe di questo mondo la verginità di Maria e il suo parto, come pure la morte del Signore: tre clamorosi misteri, che si compirono nel silenzio di Dio».
Giustino martire fa della maternità verginale uno dei punti centrali della sua apologia ai pagani e del suo dialogo interlocutorio coi giudei, ricorrendo abbondantemente alle «profezie» veterotestamentarie per documentare che un evento così inaudito, quale una madre-vergine, non è racconto mitologico, ma verità storica lungamente predetta ed infine realizzata dal Dio onnipotente. Ireneo dal canto suo, continuando Giustino ed aprendo la via al futuro cammino di approfondimento dogmatico, subordina all'umana salvezza la maternità verginale: il «segno» infatti che Dio predisse e promise ad Acaz e alla casa di Davide - l'Emmanuele da Vergine - è il signum salutis nostrae: Maria ne è piedistallo e premessa, con la sua verginità divinamente feconda: da vergine infatti egli nasce, perché è Dio; ma ha una madre, perché s'è fatto uomo per salvarci. «Ecco, la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio, e sarà chiamato Emmanuel, Dio-con-noi» (Is 7,14; Mt 1,22-23).
Questa la linea primordiale dei Padri e dei simboli, che anche l'iconografia e l'epigrafia testimoniano, che la stessa letteratura apocrifa immaginosamente parafrasa e descrive. Ma i Padri tentarono inoltre di cogliere, nel tessuto del disegno divino che include la Vergine, il motivo profondo inteso da Dio. Lo trovarono e l'espressero col principio della ricapitolazione e della ricircolazione: bisognava infatti scrive Giustino, che «per quella via per la quale, originata dal serpente, ebbe principio la disobbedienza, ''per la medesima via venisse ugualmente distrutta»; l'uomo cioè doveva riavere la vita per mezzo di colei che gli diede la morte. La donna-vergine delle origini, Eva, viene sostituita e riabilitata dalla donna-vergine dei tempi nuovi, Maria. Due vergini: una all'inizio della storia, l'altra nella pienezza dei tempi; due «economie», una di rovina per tutti, aperta dalla disobbedienza verginale di Eva, l'altra di salvezza per tutti, tracciata dall'obbedienza verginale di Maria:
«Quello infatti che la vergine Eva con la sua incredulità aveva annodato, lo sciolse la vergine Maria con la sua fede».
LA MADRE VERA
Costretti dalle polemiche contro gli gnostici e i doceti, i Padri dei primi secoli ribadiscono, a volte con crudo realismo, la verità concreta della maternità di Maria. Il docetismo gnostico riduceva infatti la carne di Cristo a pura parvenza come di fantasma, cancellando ogni rapporto fisico tra madre e figlio; e la corrente gnostica valentiniana, d'ispirazione platonica, riduceva l'azione materna di Maria a una mera strumentalità passiva: «Cristo è passato attraverso Maria, come passa l'acqua attraverso un tubo», affermava Valentino." Maria dunque non avrebbe dato nulla al Figlio, o null'altro che una ricezione strumentale, senz'alcun apporto fisico.
La risposta dei Padri è chiara e decisa: tutta la realtà umana del Cristo viene solo da Maria! Ignazio di Antiochia, nelle splendide lettere vergate durante il viaggio al martirio, martella gli eretici coi capisaldi della fede:
«Tappatevi le orecchie se alcuno vi parla altrimenti di Gesù Cristo: che è dalla stirpe di David, che è da Maria, che veramente nacque, mangiò e bevve, veramente fu perseguitato sotto Ponzio Pilato, veramente fu crocifisso e morì... veramente risuscitò dai morti»; «Egli è veramente dalla stirpe di David secondo la carne, Figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio, nato veramente da Vergine...».
Questa carne umana, vera, Cristo l'ha presa da Maria: egli è tutto «da Maria» in quanto uomo. Anzi Ignazio, in un testo unico nella letteratura patristica, compendia in poche frasi antitetiche, quasi in un inno liturgico, la dipendenza di tutto l'arco storico di Cristo dalla matrice materna:
«Uno solo è il medico, umano e divino, genito ed ingenito, in carne fatto Dio, in morte vita vera, e da Maria e da Dio, prima passibile poi impassibile, Gesù Cristo Signore nostro».
Maria è così all'inizio del mistero di Cristo, come fonte che gli trasmette l'umano: carne vera che sempre dipende da lei, quando è concepita e partorita, quando - assunta dal Verbo - viene in lui divinizzata, quando - dopo la risurrezione - non è più soggetta alla passibilità e alla mortalità. Per questo in s. Ignazio tutto il processo generativo ha la sua estrema importanza: il concepimento, la gravidanza, e soprattutto il parto: «nato veramente da vergine», «veramente nacque». Anzi il parto di Maria costituisce per Ignazio uno dei tre grandiosi misteri, accanto al concepimento e al mistero pasquale. A noi sfugge oggi il peso e il valore che gli antichi documenti della tradizione attribuivano alla «nascita» di Cristo e al «parto» di Maria; ma lo si capisce, se si pensa che gli gnostici consideravano la venuta di Cristo come «epifania» o semplice comparsa, priva di realtà e di concretezza umana. La vera «epifania» di Cristo per i Padri è il suo nascere da Maria, che lo ha reso visibile, palpabile da tutti.
Nel secolo II, Giustino martire, pur imbevuto di filosofie, compie nell'intuizione del mistero un passo in avanti molto importante: egli innesta la reale origine del Verbo incarnato dal seno di una donna - la vergine Maria - nell'albero genealogico non solo di Davide e dei patriarchi, ma dello stesso Adamo, il primo uomo, da cui anche Cristo, tramite Maria, riceve trasmessa come noi la natura e la denominazione di uomo.
Ireneo porta a compimento la dottrina cristologico-mariana delle origini sulla vera natura umana di Cristo e sulla verità delle azioni materne di Maria: il Redentore degli uomini infatti - egli argomenta contro gli eretici - doveva avere l'identica natura dei redenti: vera carne e vero sangue, dell'antica pasta di Adamo: fondamento insostituibile al suo agire e al suo patire: poiché altrimenti non avrebbe potuto sentir fame e sete, soffrire stanchezza e sudar sangue, morire e risorgere; né avrebbe potuto redimerci.
Nel IV secolo i Padri di tutte le scuole - alessandrina, antiochena, sira, romana ed africana - insorsero contro l'errore di Apollinare, che privava la natura umana del Verbo della parte razionale dell'anima. Scrive Gregorio di Nazianzo nei suoi Poemi:
«Per amor mio l'Immortale uscì mortale, da Madre vergine, integro uomo per salvarmi tutto: poiché tutto Adamo era caduto a causa del cibo funesto».
Nel V secolo l'Inno Akathistos, prolungando l'intuizione di Ireneo e dei Padri di Efeso, scorgeva nel grembo verginale non solo la fonte della carne di Cristo, ma anche dei sacramenti della chiesa che in Cristo rigenera gli uomini a Dio:
«Ave, per noi sei la fonte dei sacri misteri; ave, tu sei la sorgente dell'acque abbondanti. Ave, o fonte che l'anime mondi; ave, o coppa che versi letizia. Ave, fragranza del crisma di Cristo; ave, tu vita del sacro banchetto».
Dall'VIII sec. e per tutta la successiva tradizione bizantina la visione s'allarga al cosmo: non solo a nome degli uomini, ma a nome di ogni creatura, terrestre e celeste, la vergine madre offre al Figlio di Dio, la sua carne, affinché, assumendola, egli porti all'apice della perfezione, alla piena comunione personale con Dio tutto il creato.
LA MADRE UMANA
La Vergine non è madre del Verbo soltanto per la sua funzione generativa, ma perché con tutta se stessa l'ha accolto e gli ha dato tutto di sé: consenso, amore, compartecipazione, dolore.
Già il secolo II, con Giustino ed Ireneo, fissava la sua attenzione sulle disposizioni di fede e di ubbidienza con le quali Maria, contrapponendosi ad Eva, cancellava gli effetti funesti del peccato.
Dal IV secolo, prima con Efrem siro, poi con gli omileti ed innografi bizantini, la contemplazione si incentrò su due momenti-chiave della vita di Maria: la sua tenerezza di madre nell'infanzia del Signore e il suo tremendo dolore nella passione di Cristo. Al tempo del concilio di Efeso, Basilio di Seleucia nella sua celebre omelia sulla madre di Dio, dava voce ai sentimenti della Vergine sulla culla del Figlio:
«Quale nome adatto potrò trovare per te, o Figlio? Quello di uomo? Ma la tua concezione è divina! Quello di Dio? Ma assumesti carne umana! Che farò dunque per te? Ti nutrirò col latte, o ti celebrerò con inni? Avrò cura di te come madre, o ti adorerò come serva? Quale prodigio ineffabile e sublime! Il cielo è tuo trono, e il mio grembo ti porta».
Il secondo momento, mai ignorato dai grandi autori bizantini, presenta la madre ai piedi del Figlio crocifisso. La «spada» di Simeone, che Origene interpretò come prova suprema di fede della Madre-discepola davanti alla realtà misteriosa e al soffrire inaudito del Figlio-Dio, fu in seguito commentata come predizione di straziante dolore materno nella passione di Cristo. Nell'Inno di Romano il Melode (sec. VI), Maria alla Croce, la Madre implora che il Signore le conceda di capire e di partecipare al mistero del suo soffrire: «Io son vinta, o Figlio; dall'amore son vinta, e non accetto davvero di restare nel talamo, mentre tu sei sulla croce; io in una casa e tu in un sepolcro. Lasciami venire con te!».
Innumerevoli «staurotheotokia» (tropari alla Vergine ai piedi della croce) dal secolo VII ad oggi costellano la liturgia bizantina di ogni settimana, non solo del tempo di passione, dipingendo con tratti toccanti la Madre davanti al suo Dio crocifisso: dolore e fede si fondono in uno nel suo cuore. Dalla croce, con Germano di Costantinopoli (sec. VIII), la contemplazione si prolunga al sepolcro, dove Maria effonde il suo lungo lamento («threnoi») sul Figlio ucciso: dolore e speranza si compenetrano: in lei tutta la chiesa piange il Trafitto e attende il Risorto.
Così nella tradizione bizantina a poco a poco maturò la convinzione, che la Madre fu tanto unita al Figlio in tutto l'arco della vita terrena, e con tale profondità, da avere quasi in comune con lui il pensare, l'agire, il gioire, il soffrire. Giovanni Geometra (sec. X) scrive:
«Come l'ombra è unita al corpo; ancor più, come il Verbo, dal momento che assunse da Maria la natura umana non se n'è più separato; allo stesso modo, o quasi, la Vergine dopo averlo generato non fu mai separata dal suo Figlio in tutte le sue attività, nelle sue disposizioni, nella sua volontà, anche se ne fu separata secondo la persona. Quando egli pativa, con lui pativa; quando egli operava miracoli, era come se lei stessa li avesse operati. Quando era tradito, arrestato, giudicato, e quando soffriva, non solo era presente ovunque al suo fianco, ma soffriva con lui e -se non è temerario dirlo - soffriva più ancora di lui; atrocemente dilaniata, sospirava di subire mille volte i dolori che vedeva soffrire al suo Figlio».
Possiamo dunque affermare che la tradizione d'oriente sempre vide Maria come madre nel senso più umano e più pieno: madre perché ha dato al Cristo la carne, sapendo, credendo e volendo; e perché, dal giorno in cui fu nel suo seno fino a quando risorse glorioso, visse totalmente per lui, partecipe della sua missione, della sua vita, della sua morte, della sua gloria.
LA THEOTOKOS
All'indomani della controversia ariana, che attirò l'attenzione sul mistero della Trinità e sull'eterna generazione del Verbo dal Padre, nacque nella seconda metà del secolo IV un'altra importantissima discussione, che riguardava la persona e le nature di Cristo. Si trattava cioè di precisare come le due nature si trovassero unite, in che senso si potesse affermare che il «Verbo si era fatto carne», come intendere soprattutto la compenetrazione nell'unico Cristo delle diverse «azioni e passioni».
Servì non poco a chiarire la questione l'errore di Apollinare, prontamente rigettato da tutte le chiese: egli, per salvaguardare la strettissima unione divino-umana nell'unico Cristo, era giunto ad asserire che il Logos increato aveva sostituito la parte razionale dell'anima umana, in modo tale che chi pensava, decideva, amava, era lo stesso Verbo di Dio, attraverso la carne assunta da Maria a strumento della divinità.
Alla chiarificazione della dottrina cristologica diede motivo anche il titolo «Theotokos», che nella scuola di Alessandria era in uso fin dal secolo III. Poteva infatti, come avvenne, suscitare dubbi e reazioni, proprio perché congiungeva e rapportava a Dio una funzione generatrice umana. Come si può accettare che Dio sia generato ed abbia origine da Maria, una creatura?
L'appellativo «Madre di Dio - Maynouti» era attribuito nella lingua dei faraoni a Iside, la dea-madre del dio Oros; ma le comunità cristiane d'Egitto non dubitarono di accettarne la traslitterazione greca «Theotokos» per applicarla a Maria, la vergine-madre di Cristo, certo con altra prospettiva di fede ed altro contenuto teologico. Qui infatti non si trattava di una «dea», né si poteva parlare di «generazione del dio», quasi che egli cominciasse ad esistere a partire da questa maternità: poiché il Verbo esiste da sempre, eternamente generato dal Padre; si trattava invece di precisarne la generazione umana «secondo la carne» da una nostra sorella, Maria, nel tempo, secondo la natura che egli volle far propria, venendo tra noi a compiere il progetto del Padre suo a nostro favore: madre vera certamente, non della divinità, ma di Colui che si compiacque di unire a sé una natura umana perfetta, diventando uomo fra gli uomini, partecipe del loro essere e del loro destino. In questa linea, a detta dello storico Sozomeno, Origene difese la liceità del titolo Theotokos nel suo commento alla Lettera ai Romani.
I contenuti dogmatici della divina maternità hanno il loro fondamento nella Bibbia e la loro prima embrionale espressione nelle opere degli antichi Padri. Ignazio di Antiochia non dubitò di professare che «Dio s'è manifestato in forma umana»; che i fedeli «sono stati rianimati nel sangue di Dio»; e, parlando direttamente di Maria, dice che «il nostro Dio Gesù Cristo fu portato da Maria nel suo seno secondo l'economia di Dio, concepito da seme di David e da Spirito santo.
Identica, ma ancor più sviluppata teologia in Ireneo, il quale in più luoghi afferma che proprio l'unigenito Figlio del Padre si fece uomo, assumendo con la carne le proprietà della carne, in modo però che restassero distinte anche dopo l'unione le nature e le azioni. Così scrive:
«Imparate dunque, o insensati, che Gesù il quale patì per noi ed abitò fra noi, proprio lui è il Verbo di Dio»; «Paolo sottolinea che lo stesso Cristo, che patì, è il Figlio di Dio che per noi morì e anche Ippolito, nel secolo III, conferma questa dottrina, mentre con tenera apostrofe così si rivolge a Maria: la vera controversia nei termini e nei contenuti sorse nella seconda metà del secolo IV, con il confronto tra le due maggiori scuole d'oriente, l'alessandrina e l'antiochena. 50 anni prima del concilio di Efeso, con parole concise quasi di definizione dommatica, Gregorio di Nazianzo, il più celebre teologo, difendeva il termine «Theotokos», derivandolo da una chiara dottrina cristologica:
«Noi non separiamo l'uomo dalla divinità, ma un solo e identico lo professiamo, prima non uomo, ma Dio e unico Figlio e più antico dei secoli; alla fine però anche uomo: uomo assunto per la nostra salvezza: passibile nella carne, impassibile nella divinità, terrestre ed insieme celeste. E ciò affinché per mezzo di quest'unico integro uomo e insieme Dio fosse rifatto integralmente l'uomo caduto in peccato. Se dunque uno non accetta che la santa Maria sia Theotokos, è escluso dalla divinità. Se uno introduce due figli, il primo da Dio Padre, l'altro dalla Madre, e non unico e medesimo Figlio, precipiti anche costui dall'adozione filiale promessa a chi tiene la retta fede».
La controversia divampò quando Nestorio, monaco antiocheno, fu elevato al seggio episcopale di Costantinopoli il 10 aprile 428. Dal pulpito impugnò immediatamente il titolo «Theotokos», perché equivoco e sospetto d'errore: «Continuano ad interrogarci: "Maria è theotokos o anthropotokos?". Ma può Dio avere una madre? sarebbe scusabile il paganesimo, che assegna madri agli dèi! No, mio caro, Maria non partorì Dio: la creatura non partorì 1'Increato, ma un uomo strumento della divinità»ci redense col suo sangue nel tempo stabilito»;" e parlando della maternità di Maria: «Simeone... il bambino che teneva in braccio Gesù nato da Maria, lo confessava Cristo Figlio di Dio, luce degli uomini»; e altrove: «Colui che la legge per mezzo di Mosè e i profeti del Dio altissimo e onnipotente hanno annunciato, il Figlio del Padre dell'universo, per mezzo del quale ogni cosa esiste, colui che s'intrattenne con Mosè, costui venne in Giudea, generato da Dio per opera dello Spirito santo e nato dalla vergine Maria, figlia di David e di Abramo».
«Dimmi, o beata Maria, chi avevi tu concepito nel seno? chi portavi nel tuo grembo verginale? Era il Verbo primogenito di Dio, che in te disceso veniva plasmato nel tuo seno - uomo primogenito - al fine di mostrare il primogenito Verbo di Dio unito al primogenito uomo».
La reazione della scuola alessandrina, capeggiata da Cirillo, s'allargò all'impero, e condusse alla convocazione del concilio di Efeso per la pentecoste dell'anno 431. Ad Efeso, i padri conciliari (assente volontariamente Nestorio, ancora in viaggio il gruppo dei vescovi antiocheni e i legati del papa) lessero pubblicamente il simbolo di Nicea, come punto di riferimento comune, e dichiararono vera la linea tradizionale alessandrina attestata da Cirillo, falsa quella di Nestorio; e dissero non solo lecito, ma doveroso, secondo la tradizione dei padri, il titolo «Theotokos». 20 anni dopo, nel 451, quando ancora gli animi non si erano pacificati, un altro concilio ecumenico, quello di Calcedonia, definì in maniera inequivocabile come intendere l'unione delle due nature in Cristo e la divina maternità di Maria: «Seguendo i santi padri, tutti ad una sola voce insegniamo che si deve confessare un solo e identico Figlio, il nostro Signore Gesù Cristo: lui stesso perfetto nella divinità, lui stesso perfetto nell'umanità; veramente Dio e - egli medesimo - veramente uomo composto di anima razionale e di corpo; consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale egli stesso a noi secondo l'umanità, in tutto a noi simile fuorché nel peccato; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, generato egli stesso negli ultimi giorni per noi e per la nostra salvezza secondo l'umanità da Maria la vergine, la Theotokos: un solo ed identico Cristo, Figlio, Signore, Unigenito, confessato in due nature, ma senza confusione, senza mutazione, senza divisione, senza separazione...» .
Questa è la definizione più solenne, che rimane fino ad oggi, per tutte le chiese, la pietra angolare della nostra professione di fede nella divinità ed umanità di Cristo, ipostaticamente unite nell'unica persona del Signore e nostro Dio Gesù Cristo, nato nel tempo da Maria la vergine, la santa «madre di Dio».
La controversia dogmatica, che durò oltre un secolo ed infranse purtroppo in maniera duratura l'unità della chiesa, servi non solo a giustificare un titolo cultuale, attestato già dalla prima antifona mariana finora conosciuta, il Sub tuum praesidium, ma ricondusse l'attenzione sulla persona di Maria e sulla sua presenza ecclesiale, proprio in grazia della divina maternità che la colloca al di sopra degli apostoli e dei martiri, anzi al di sopra degli angeli e di tutto il creato, costituendola la più vicina a Dio. Scrive Proclo di Costantinopoli, uno dei padri di Efeso:
«Nulla al mondo è tale, quale la madre di Dio Maria. Percorri pure col pensiero l'universo, o uomo, e vedi se v'è qualcosa maggiore o uguale della santa Vergine Madre di Dio. Perlustra la terra, esplora i mari, esamina l'aria, investiga i cieli, considera tutte le potenze celesti, e vedi se sia possibile trovare un tale prodigio in tutta la creazione...: lei sola infatti in modo ineffabile accolse nel suo talamo colui che tutto l'universo con timore e tremore inneggia».
Dalla divina maternità scaturisce inoltre la «consacrazione» personale di Maria al mistero di Dio, per quella quasi-simbiosi che intercorse tra lei e il Verbo mentre dimorava nel suo seno: così affermano padri e scrittori bizantini, dal V secolo in poi; dalla divina maternità promana quel potere materno, che tutta la tradizione le riconobbe; dall'esser la «vera madre di Dio» s'irradia il mistero che l'avvolge e la colloca al vertice del cammino umano, quasi permanente icona e segno di ciò che tutta la chiesa ed ogni uomo è chiamato a diventare, in Cristo.
Desidero chiudere questa succinta esposizione patristica sulla maternità di Maria con l'antifona che il coro canta, in ogni messa di rito bizantino, dopo la consacrazione, in risposta all'anamnesi del celebrante, quando ad alta voce nomina la madre di Dio:
«È veramente giusto dire beata te, la beatissima ed immacolata Theotokos e madre del nostro Dio. Te, che sei più degna d'onore dei cherubini e incomparabilmente più gloriosa dei serafini, te, che in modo incorrotto hai generato il Dio Verbo e sei veramente madre di Dio, te noi magnifichiamo».

mercoledì 3 dicembre 2014

La famiglia e le nuove sfide pastorali Un Sinodo non Sinodale.


La famiglia e le nuove sfide pastorali
Un Sinodo non Sinodale.

Il mese di ottobre,è stato un periodo fibrillante di incontri,nel sinodo della chiesa cattolica romana. il Vescovo di Roma,Francesco,ha voluto che i vescovi in rappresentanza di tutto il mondo si ritrovassero , per discutere e proporre delle nuove linee pastorali in merito alla famiglia, divorziati e separati,coppie di fatto e  la dolente ( a loro giudizio)nota degli omosessuali.
Abbiamo assistito a giorni di discussione,ascoltando dai media e leggendo dai giornali,atteggiamenti di apertura e spinte in avanti,da parte di diversi vescovi,così come di interviste,che hanno mantenuto di fatto una chiusura e un tono,che fatico ancora a leggere come volontà di Dio.
Senza voler polemizzare,desidero più che altro,esporre il mio pensiero e le mie riflessioni,come cristiano e come vescovo.

La famiglia.
Stando a quando insistentemente,la chiesa cattolica romana,ama definire la famiglia in rapporto a quella di Nazareth,è sorprendente come i testi biblici,che parlano di Maria,Giuseppe e Gesù,ci dicono immediatamente due cose inconfutabili.
1.      Maria concepisce per diretto intervento di Dio,infatti noi crediamo all’azione dello Spirito Santo.
2.      Giuseppe,che inizialmente vuole ripudiarla,l’accetta come sposa,divenendo di fatto il Padre putativo,potremmo dire affidatario di Gesù.

Nel quadro di questa pericope evangelica,si descrive senza ombra di dubbio che la famiglia di Gesù,è una famiglia de facto e non de iure. In nessun altro passo,che parli di questa nuova famiglia si intravedono segni di una qualsiasi giurisprudenza,o qualsivoglia argomentazione morale e tantomeno,sono presenti atti cultuali o liturgici. Dio quando opera non ha bisogno di riconoscimenti,poiché ,nella fedeltà è il suo amore.
Per comprendere ancora più affondo l’dea che Gesù ha della famiglia,dobbiamo aspettare qualche anno e leggere alcune reazioni che Egli stesso ha, a proposito manifestato.

In Marco,3,31-35 leggiamo:
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. 32 Tutto
attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle
sono fuori e ti cercano». 33 Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei
fratelli?». 34 Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco
mia madre e i miei fratelli! 35 Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella
e madre».
La domanda sorge spontanea,perché Gesù risponde con tanta determinazione e quasi durezza.
La risposta meriterebbe,una certa articolazione esegetica,ma sintetizzando,possiamo dire con chiarezza che Gesù,introduce un nuovo modo di concepire la famiglia, l’elemento biologico sembra lasciare il posto a quello spirituale( chiunque compie la volontà di Dio ).
Anche in Matteo,12,46-50,troviamo la stessa situazione,così come in Luca8,18-21 e in Giovanni 2,12,seppur con una connotazione differente.
Questa novità sulla famiglia,non è da considerare secondaria a tutta l’opera della salvezza,perché l’idea fondante la famiglia,possiamo dire l’elemento sorgivo,si struttura attorno alla comunione del cuore e dello spirito. Prova ne è il passo di Luca 14,26
 Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere un mio discepolo".
La versione della CEI, ha edulcorato la traduzione del verbo greco Miseo con amare, quando in realtà la traduzione originaria è odiare,soprattutto nel contesto lucano. Questo per dire come la paura di mettere in bocca a Gesù parole non propriamente consone o negative sulla famiglia è stato molto forte,da parte degli studiosi della CEI. Ma al di la dell’aspetto esegetico,rimane inconfutabile che in Gesù la famiglia ,propriamente conosciuta  nel senso moderno, non trova un riferimento teologico, propriamente inteso. Va da se che qui non si vuole assolutamente destituire di fondamento sociologico e antropologico, la realtà della famiglia, perché rimane almeno in linea di principio psicologico ,la prima e fondamentale esperienza umana e socio-educativa. In sintesi i vangeli non si soffermano su temi analitici sulla famiglia, solo Paolo di Tarso, pone alcune questioni, che fanno già parte di un contesto storico-teologico, non deduttivo a livello scritturistico.

La sacramentalita’ del sacramento.
Molto spesso, si fa riferimento nel matrimonio, celebrato religiosamente, all’aspetto sacramentale. Anche in questo caso, la riflessione da parte della gerarchia ecclesiastica, presenta delle lacune intrinseche , tra vita di coppia e sacramento.
Lo stesso impianto dottrinale, della chiesa romana, si autodetermina in una fissità secolare, come valore assoluto, divenendo unico metro di misura.
La dottrina non è qualcosa di rigido e fissato una volta per sempre, ma conosce sviluppi e approfondimenti in relazione al tempo in cui ci si trova per esprimere l'annuncio dell'Evangelo a misura dell'epoca in cui ci si trova. c'è una comprensione del sacramento che a volte è slegata dalla realtà della vita matrimoniale e che risente di una visione ancora deficitaria della dimensione sessuale.
In primo luogo, i sacramenti non sono un aggiunta esteriore e posticcia a una realtà umana che sarebbe in sé carente e peccaminosa. I sacramenti, piuttosto, ci aiutano a comprendere e a raggiungere la pienezza della nostra umanità. E quel che caratterizza il matrimonio, rispetto ad altre forme di relazione umana, è proprio la dimensione sessuale, da non identificare riduttivamente con la genitalità.
Uomo e donna cercano nell'intimo una comunione di vita, di alleanza e di fedeltà con chi è altro, con chi è sessualmente differente. L'amore coniugale è questo ed è perciò sostanzialmente sessuale, ma è una sessualità che non si vive solo in camera da letto, ma in tutte i momenti della vita a due. La comprensione di questa realtà, all'interno del cattolicesimo, è ancora ostacolata da un sospetto nei confronti dell'affettività sessuale che ha radici antiche, come se fosse portatrice di un elemento intrinsecamente peccaminoso.
Ecco perché molti discorsi riguardanti i divorziati e le persone omosessuali ruotano, in modo eccessivo, attorno al sesso. Come se l'unione fisica dei corpi avesse bisogno di essere redenta dal matrimonio e dalla procreazione, perché altrimenti sarebbe un male.
Chi è sposato sa che l'apertura alla vita è una dimensione irrinunciabile della sessualità, ma non la esaurisce. Sarebbe come dire che due coniugi si amano solo quando intendono avere dei figli. Un amore coniugale che non passi anche per la corporeità avrebbe qualcosa di patologico, escludendo un aspetto primario dell'essere dell'altro.
Certo, l'esercizio fisico della sessualità corre il rischio dell'egoismo e richiede un apprendistato e una crescita umana che dura per tutta la vita. Ma questo lo vediamo già nel Vangelo. Mi sorprende, infatti, che per quel che si sa i lavori sinodali non si siano ancora soffermati su Matteo 5,27-28 che fa parte del discorso della montagna.
Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.
Prendiamo sul serio questa parola di Gesù, tanto quanto quelle sull'indissolubilità. L'adulterio, prima che nell'atto sessuale in sé, risiede nel cuore. Ecco perché ci sono persone formalmente sposate, conformi ai dettami della chiesa, che sono adultere e altre che, pur non essendo sposate, vivono una fedeltà.
Ma c'è altro, se ascoltiamo con radicalità questa parola di Gesù, chi può considerarsi escluso? Non è un fatto di durezza, ma di realismo: la nostra capacità di amare è limitata, è in cammino. Anche per chi è sposato e formalmente rispetta le norme canoniche, perché conta quel che avviene nel cuore. Il matrimonio ci indica una pienezza da raggiungere, che non esclude la presenza di elementi di positività e verità anche in altre unioni umane. Tutti siamo pellegrini. La mia perplessità nel dibattito sinodale, nasce da una lettura di approccio
"patologico" al matrimonio: come se il problema da risolvere fossero i divorzi e non ci sia invece da interrogarsi sulla comprensione, che la chiesa cattolica ha del matrimonio e sul modo di presentarla oggi. E' vero che ci sono dei fattori culturali e sociali che minano la definitività della scelta, ma proprio per questo è necessario innanzitutto ri-dire l'annuncio del matrimonio, più che trovare la soluzione di un problema. Posto che quest'ultimo è un discorso necessario, in quanto chiama in causa la sofferenza di molti, non si può pensare che tutto finisca lì.
Il vero problema è a monte (come la comunità cristiana pensa il matrimonio nella fede e accompagna ad esso) e non a valle (come la comunità cristiana si pone di fronte a separazioni, divorzi e nuove nozze). Quanti prelati, quanti cattolici spendono parole , e magari tuonano, sull'importanza della famiglia, sulla centralità della famiglia, sulla famiglia valore non negoziabile e poi, nei fatti, come la fede e la chiesa sostengono due persone nel loro cammino di sposi? Sì, con qualche corso e qualche predica. C'è una distanza forte tra l'importanza che la famiglia ha nei discorsi ecclesiali e la realtà della vita della chiesa.. Al più, ci si preoccupa di leggi, coppie di fatto e coppie omosessuali con un atteggiamento di polemica e difesa. Molto meno ci si preoccupa di cammini di umanità e di fede. Il sinodo poteva essere una grande occasione, riaprendo una riflessione sul matrimonio e non di chiuderla, limitandosi a ripetere il già detto.
L’indissolubilità, come limite invalicabile.( Card. Müller)
 Quanto meno, questa argomentazione la si può considerare, senza ombra di dubbio, proveniente da quegli ambienti di Curia interessati a salvaguardare una continuità su tutto. Rileggendo il testo
Troviamo, presenti due linee argomentative a partire dall'indissolubilità del matrimonio: una riguardante la possibilità di divorzio e seconde nozze in riferimento alla posizione della chiesa antica e del cristianesimo ortodosso (che risolverebbe in radice la questione dell'accesso ai sacramenti) e l'altra riguardante la possibilità di ammettere ai sacramenti il divorziato risposato pur considerando sempre in essere il primo matrimonio.
La prima concerne una serie di questioni esegetiche e storiche.
Il dato esegetico concerne l'interpretazione di Mt 5,32 e 19,9. Ci sarebbe anche il cosiddetto "privilegio paolino" di 1 Cor 7,12-17, ma si applica a una situazione particolare, non al matrimonio in sé.
Sui testi evangelici, Müller si limita a dire che "la Chiesa non può basare la sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche controverse". E' un'affermazione troppo sbrigativa: quelle che lui definisce ipotesi esegetiche, sono ammesse da un'altra tradizione ecclesiale. E' un po' leggero liquidarla come se niente fosse, visto che non  è mai stata oggetto di un vero e proprio discernimento nella chiesa cattolica. E se, invece, quest'altra tradizione avesse realizzato un ascolto della Parola di Dio su cui i cattolici hanno  sorvolato?
Dal punto di vista storico, Müller è altrettanto sbrigativo sulla chiesa antica e sui Padri. Su che cosa si basa? Ho fatto qualche ricerca. Gli studi in proposito mi sembrano quantitativamente scarsi .Ora, su un tema tanto importante, è sufficiente un singolo saggio accademico per considerare chiusa la questione? Esistono altre ricerche in proposito? Lo chiedo proprio perché sono non esperto e credo che ci voglia una base solida per prendere posizione.
Posto che si respinga totalmente la possibilità di divorzio e seconde nozze, si tratta di valutare se esistono condizioni per l'accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati civilmente. E' la seconda linea argomentativa. Müller passa in rassegna le possibilità prospettate dal dibattito teologico e le respinge.
La prima chiama in causa la coscienza. Scrive l'arcivescovo:
Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il Battesimo è incorporato, è tenuta a decidere.
In altre parole, le convinzioni di coscienza devono essere stabilite tramite un procedimento giudiziario. Ma è sostenibile? E' il Padre che vede il cuore, o un tribunale canonico? Com'è possibile stabilire con un giudizio ciò che è autenticamente presente nel nostro intimo?
Secondo argomento discusso:
Anche la dottrina dell’epichèia, secondo la quale una legge vale sì in termini generali, ma non sempre l’azione umana vi può corrispondere totalmente, non può essere applicata in questo caso, perché l’indissolubilità del matrimonio sacramentale è una norma di diritto divino, che non è dunque nella disponibilità autoritativa della Chiesa. Questa ha, tuttavia, il pieno potere — sulla linea del privilegio paolino — di chiarire quali condizioni devono essere soddisfatte prima che un matrimonio possa definirsi indissolubile secondo il senso attribuitogli da Gesù. Su questa base, la Chiesa ha stabilito gli impedimenti al matrimonio che sono motivo di nullità matrimoniale e ha messo a punto una dettagliata procedura processuale.

Anche qui, tutto si riduce a un fatto processuale. Però, qui Müller mi sembra compiere un errore argomentativo: il problema in oggetto è l'indissolubilità del matrimonio o la possibilità del divorziato risposato di accedere alla comunione sacramentale? Non è la stessa cosa. Sono due problemi differenti.
Forse, a chiarire il tutto, ci può aiutare il terzo argomento.
Un’ulteriore tendenza a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti è quella che invoca l’argomento della misericordia. Poiché Gesù stesso ha solidarizzato con i sofferenti donando loro il suo amore misericordioso, la misericordia sarebbe quindi un segno speciale dell’autentica sequela. Questo è vero, ma è un argomento debole in materia teologico-sacramentaria, anche perché tutto l’ordine sacramentale è esattamente opera della misericordia divina e non può essere revocato richiamandosi allo stesso principio che lo sostiene.
Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia.
Ecco, qui emerge quello che è il vero nodo: l'ordine sacramentale. Attenzione, a questo punto. Infatti, poco dopo, si legge: per l’intima natura dei sacramenti, l’ammissione a essi dei divorziati risposati non è possibile.
Allora, il vero problema, in questo ambito, non è l'indissolubilità del matrimonio, bensì la natura dei sacramenti. Non è cosa da poco: eppure, tutto l'articolo dedica molto spazio al tema dell'indissolubilità e poco spazio al tema dei sacramenti. C'è uno squilibrio su un aspetto decisivo.
Comunque, la motivazione della non ammissibilità ai sacramenti è data dal n. 84 dell'esortazione Familiaris consortio.
L’ammissione all’eucaristia non può tuttavia essere loro concessa. In relazione a questo viene addotto un duplice motivo: a) «il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’eucaristia»; b) «se si ammettessero queste persone all’eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio». Una riconciliazione mediante il sacramento della penitenza — che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico — può essere accordata solo sulla base del pentimento rispetto a quanto accaduto, e sulla disponibilità «a una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». Ciò comporta, in concreto, che quando la nuova unione non può essere sciolta per seri motivi — quali, ad esempio, l’educazione dei figli — entrambi i partner «assumono l’impegno di vivere in piena continenza».
La motivazione (b) è debole: dire che ammettere all'eucaristia un divorziato crea confusione sulla dottrina dell'indissolubilità equivale a dire che i fedeli nel popolo di Dio sono persone prive d'intelligenza e non in grado di capire. Le persone capiscono, se si dicono le cose nella chiarezza.
La motivazione vera è che i rapporti sessuali sono considerati un adulterio, perché in caso di continenza si ammette l'accesso all'eucaristia (e qui c'è una contraddizione: in questo caso non vale la confusione suscitata nei fedeli?).
E' questo un argomento sufficiente e insormontabile?
Matrimonio: una riflessione da aprire, non da chiudere
3. L'essenziale del matrimonio
Parlare di matrimonio in termini eminentemente dottrinali o giuridici non ne coglie in pieno la verità. Quando leggo o ascolto certi discorsi che vengono da uomini di chiesa mi viene da scuotere la testa. Si coglie che ci sono aspetti fondamentali che sfuggono. Non ci si sposa né si rimane insieme a motivo di una dottrina o del diritto canonico. Se si perde di vista questo assunto, quelli che sono degli strumenti che dovrebbero essere di aiuto, diventano un fine, producendo una comprensione squilibrata del matrimonio.
Sinceramente, devo dire di aver avuto questa impressione nella lettura dell'intervento dell'arcivescovo Müller su cui ho iniziato  da tempo a riflettere. Qui però siamo alle prese con qualcosa di vitale per me e per tante persone, qualcosa che ha un profondo significato di fede. E' la via su cui, con i miei errori e le mie fragilità, ho giocato la mia vita, è un aspetto sostanziale della mia sequela del Signore. E, se sono profondamente convinto che c'è qualcosa che non va nel modo in cui se ne parla, lo devo dire. Per quel poco che vale la mia povera voce, lo devo dire, cercando di portare buone ragioni nella misura in cui ne sono capace. Non è un fatto di polemica, ma di onestà come uomo, cristiano e vescovo.
 Tutto l'intervento di Müller è imperniato sulla dottrina dell'indissolubilità del matrimonio, come se fosse il centro della fede cristiana su questo sacramento. Detto così, si riduce il matrimonio a un vincolo, a un comando amministrato dalla chiesa e dai suoi tribunali che ne possono eventualmente stabilire la nullità. E' come se il sacramento fosse qualcosa che si sovrappone all'umano e lo vincola.  Una visione del genere è povera. Il sacramento, piuttosto, abita l'umano per portarlo a realizzarsi in pienezza. Il sacramento umanizza, alimenta la nostra umanità per giungere alla statura di Cristo. Però, senza mai togliere la nostra libertà che è anche libertà di rifiutare il dono e di peccare.
L'umanità abitata dal sacramento del matrimonio è l'amore umano, né più né meno. Un amore che inizia con l'attrazione e il desiderio; diventa scoperta, conoscenza, condivisione e il desiderio assume un carattere di totalità. E' il desiderio di essere una sola carne, di un amore che non finisce. E' l'essere a immagine e somiglianza di Dio, inscritto dentro di noi. Genesi 3,24 non dice un comando di Dio, dice come noi siamo. L'indissolubilità non è un decreto arbitrario, è intrinseca all'amore. Indissolubile è l'amore di Dio per il suo popolo, di Cristo per la sua chiesa, del Padre per ciascuno di noi. Di qui il nostro poter amare: siamo capaci di amare perché Dio è amore.
Questo credono, o quanto meno intuiscono, due sposi. Se manca, almeno in minima misura, questa consapevolezza, sono convinto anch'io che il matrimonio religioso sia nullo. Gli sposi hanno fiducia che il loro amarsi viene da Dio, che continua la storia iniziata con il battesimo (di cui si fa memoria), che ha come vertice e alimento l'eucaristia, segno dell'amore di Gesù che arriva fino alla croce. Sposarsi è avere fiducia che il proprio amore può durare tutta la vita, perché non siamo soli, Dio è presente nella storia d'amore umana, la benedice. Ecco l'indissolubilità: è una promessa del Signore in cui si pone fiducia, non una regola. La chiesa è la comunità che accompagna e sostiene questo amore, questa fede. Non può essere presente solo per esercitare un giudizio.
4. Peccato e misericordia
C'è però il dramma della libertà che può prendere la via del peccato: nell'amare possiamo fallire, essere infedeli, indurire il nostro cuore. In molti modi, non solo sessualmente. Questo può avvenire anche a persone che si sono sposate con fede. Nessuno è esente a priori. Quando avviene, è un fatto grave e c'è una componente di peccato, d'infedeltà, se il matrimonio era reale e non solo facciata.
E' un peccato che la chiesa può perdonare? La missione affidata da Gesù agli apostoli non è proprio il perdono dei peccati?
Qui bisognerebbe distinguere da una rottura del matrimonio che nasce là dove uno degli sposi, con leggerezza, "passa ad altro" seguendo una pulsione egoistica e disinteressandosi del coniuge (ma, allora, mancava già in partenza la consapevolezza che rende valido il matrimonio) da un deterioramento dei rapporti che nasce da limiti e fragilità delle persone implicate, con un carico di fatica e sofferenza per entrambi.
In quest'ultima situazione, il non accesso all'eucaristia dipende dallo stringere una nuova unione affettiva là dove c'è un'intimità sessuale e non continenza.
Questo costituirebbe un peccato imperdonabile? Ma come: la chiesa può perdonare un'omicida, può perdonare un pedofilo, può perdonare un prete che rinuncia al ministero, ma non può perdonare un divorziato che vive un'altra storia perché ha dei rapporti sessuali? La misericordia lì non arriva?
Si dice: ah, ma ci vuole il pentimento. Se no, è falsa misericordia, senza giustizia, che incoraggia il peccato, perché non lo tratta seriamente e lo svuota della sua gravità.
Prima osservazione: Dio nella Bibbia non agisce così. Il suo perdono precede la conversione e la suscita, non è una conseguenza della conversione. Lo vediamo in Osea. Lo vediamo in Gesù, con l'adultera, per esempio (Gv 8,1-11). E' vero che le dice di non peccare più, ma intanto la perdona. Non aspetta di verificare che si sia convertita, la perdona prima, in anticipo! Gesù non vuole l'adulterio, lo condanna, ma con il peccatore esercita grande misericordia ed è così che si pongono le premesse della conversione.
Si dice: sì, ma la chiesa accoglie i divorziati risposati. L'esclusione dall'eucaristia non è una punizione. E' che non si può, è per far capire che sono in una situazione di peccato; se non vivono in continenza, vuol dire che non c'è pentimento, e la chiesa per essere nella verità non può ammetterli all'eucarestia.
E' falso! Chi conosce persone divorziate che hanno fatto un cammino interiore serio, sa che il pentimento c'è, che la consapevolezza c'è. E con sofferenza, non con noncuranza. Ma pentirsi non può voler dire far rinascere artificialmente una convivenza che non c'è più e distruggere di colpo un rapporto che si è creato, quando è profondo e consolidato. Il punto è che qui c'è un'enfatizzazione del peccato sessuale che è una brutta eredità che il cattolicesimo si porta ancora dietro.
Davvero, l'omicidio può essere perdonato, ma se c'è una nuova unione di cui fa parte l'esercizio dell'affettività sessuale (non una sessualità disordinata ed egoistica) non si può dare il perdono? Eppure, ovunque si sposano in chiesa persone che prima sono state conviventi e hanno avuto rapporti sessuali e non sono affatto pentite di questo. E succede ovunque. Però, siccome si sposano, si "regolarizzano".
Ecco il problema: alla radice del divieto dell'eucaristia non c'è l'ordine sacramentale, l'intima essenza dei sacramenti. I sacramenti non sono riservati ai puri e ai perfetti: accompagnano il nostro cammino di conversione, ci sostengono. La questione vera non è di teologia dei sacramenti, secondo me, è di teologia morale e prima ancora di antropologia: la sessualità.
Sulla sessualità pesa ancora un'impostazione giuridica che deriva da una visione peccaminosa: se è dentro il matrimonio ed è aperta alla procreazione è lecita, se no c'è peccato. Semplifico, ma stringendo la sostanza è questa.
La sessualità è un cammino, per gli sposati come per i celibi, un esercitarsi nell'umanità e nell'amore in cui è sempre presente la zizzania della nostra insufficienza. Farla rientrare in un dualismo lecito/non lecito è falsarla, è parlare di qualcosa che non è realmente la sessualità. E far dipendere da questo l'accesso all'eucaristia, secondo me, deriva da questa concezione inesatta.
Dire questo non è non credere all'indissolubilità del matrimonio. Neppure è negare il peccato e giustificare ogni comportamento. Penso sempre a persone che fanno un cammino serio di penitenza, di fede, di preghiera. Quello che intendo è dare la possibilità di continuare un cammino di vita cristiana di cui l'eucaristia è parte essenziale, pur con la ferita del matrimonio che si è celebrato. Le ferite non si possono cancellare, ma possono curare e guarire. Ci può essere vita anche dopo la ferita. Non è questa la via mostrataci da Gesù, la via su cui seguirlo come chiesa?
Ecco perché vorrei si prendesse in considerazione questa prospettiva nel guardare a una realtà del genere. E' la prospettiva che ci fa vedere come praticabile una via, piuttosto che un'altra, e io ho voluto suggerire una prospettiva che so non essere soltanto mia.

 Il Gender, Un accenno, alla questione affrontata a livello areo nel Sinodo.
Vescovi, teologi, mezzi di comunicazione sembrano gareggiare nel denunciare il pericolo che viene dalla teoria del gender, la quale vorrebbe cancellare la differenza tra uomo e donna, e con essa distruggere matrimonio, famiglia e ruoli genitoriali.
Il gender appare come la nuova eresia che ha conquistato politici e intellettuali, assediando la chiesa e il diritto naturale in nome del matrimonio gay. Dalla legge contro l'omofobia ai registri delle coppie di fatto, all'educazione sessuale nelle scuole, tutto sembra guidato da un grande complotto gender, portato avanti dal movimento LGBT, come se fosse una sorta di Spetro potente e ramificata. Questa narrazione è molto diffusa nel discorso pubblico cattolico. Evoca un pericolo e un nemico contro cui vigilare e mobilitarsi.
Il fatto è che forse le cose non stanno proprio così.
Cominciamo dal "nemico". Si parla ormai della teoria gender come alcuni decenni fa si parlava del comunismo. Ma dove sono i Marx e i Lenin del gender? Quali sono il Manifesto e il Capitale di questa ideologia? Come si chiama e dove ha sede il suo partito? Da nessuna parte, in tutti i testi e discorsi cattolici sul gender, si trova una risposta a queste domande, perché in realtà "la" teoria del gender semplicemente non esiste.
Vent'anni fa, quando frequentavo l'università, nei miei corsi m'imbattei negli "studi di genere" ( nel mondo accademico anglosassone), una denominazione che raccoglie ricerche filosofiche, sociologiche e psicologiche che studiavano il femminile e successivamente il maschile. Queste riflessioni nascevano dalla presa di consapevolezza che l'immagine della donna, e il suo posto nella società, erano determinati da una cultura a predominanza maschile la quale perpetuava un'idea d'inferiorità e una pratica di subordinazione della donna.
L'obiettivo era la comprensione dell'identità e della differenza femminile, nella misura in cui non dipendono dal dato biologico, ma da un'elaborazione simbolica e culturale. Un esempio banale e immediato è l'idea, per lungo tempo universalmente accettata, dell'inferiorità intellettuale della donna escludendola così dalla vita politica e dagli studi. Sulla stessa linea, i gender studies hanno inevitabilmente cominciato a occuparsi delle omosessualità, le quali sollevano questioni particolari.
Il punto è che le teorie formulate in proposito sono tante e molto diverse. Le rappresentazioni a cui ho accennato sono perciò forzature arbitrarie, perché non rispecchiano la realtà. Solo le teorie più radicali postulano un'insignificanza della differenza biologica e più a monte antropologica, con i rischi di destabilizzazione sociale e di disintegrazione dell'identità dell'umano denunciati dal magistero. È un fraintendimento che chiude la porta, nel mondo cattolico, a un confronto sereno perché tante questioni e prospettive sono accomunate indebitamente sotto l'etichetta dispregiativa del gender. Così, si butta via con l'acqua sporca il bambino di un patrimonio di pensiero che aiuta a riconoscere e valorizzare pienamente nella società, ma anche nella chiesa, le ricchezze del maschile e del femminile. Vuol dire non riuscire comprendere fino in fondo l'immagine di Dio nel "maschio e femmina li creò" di Genesi.
Se non sappiamo pensare il femminile al di là di costumi e rappresentazioni stereotipate, per esempio, come comprendere l'esercizio della maternità nell'economica, nella politica, nella scienza, al di là dell'atto di generare fisicamente i figli? E lo stesso vale per il maschile. E oltre la maternità e la paternità?
 In che cosa consiste una cultura cristiana dell'identità di genere? In altre parole, come la fede cristiana fa discernere e vivere concretamente nel quotidiano la verità dell'essere uomo e donna? Certo, questo vuol dire rompere relazioni di potere che fa comodo mantenere.
Lo sa bene papa Francesco, quando pone il problema dell'accesso delle donne a ruoli decisionali nella chiesa (cfr. Evangelii gaudium 104). Lo sanno anche meglio tante teologhe, religiose e laiche, che ben conoscono questi temi e la cui voce trova ancora poco spazio.
«La domanda sull'identità di uomini e donne si colloca al crocevia tra natura e cultura, senza 

«La domanda sull'identità di uomini e donne si colloca al crocevia tra natura e cultura, senza riduzioni indebite e insostenibili al solo dato della differenza biologica e genetica, senza restringimenti a letture statiche dei "ruoli sociali"». Ciò significa smascherare false idee di natura, risalenti a una filosofia esistenzialista e astorica, che legittimano la marginalizzazione femminile anche in ambito religioso. Infatti, nei documenti della chiesa «il soggetto umano è presentato in modo apparentemente neutro. Oggi siamo più avvertiti del fatto che in realtà ogni teoria antropologica occidentale nasce e si sviluppa intorno a un codice androcentrico, introno a un maschile universalizzato e dichiarato neutro. La prospettiva di gender permette di decodificare l'implicito, di criticare i concetti falsamente universali di persona, individuo, soggetto ecclesiale, di svelare i meccanismi simbolici del maschile e del femminile nella liturgia, nel dire Dio e l'uomo, nel pensare la rivelazione e la storia della salvezza, nel definire la Chiesa (ad esempio le metafore femminili di sposa e madre)»
Una delle parole che ricorrono con maggiore frequenza nei discorsi legati alla sfera religiosa è «verità».
Spesso la si usa come una sorta di arma per porre fine a una controversia: la posizione diversa dalla propria viene considerata illegittima «in nome della verità». Si squalificano così l’interlocutore e le sue ragioni, di solito con il ricorso a qualche documento magisteriale o alla parola di qualche alto prelato. Nei media, come in parecchi contesti ecclesiali, si incontrano cattolici che si esprimono per citazioni, ripetendo solo quanto già affermato e certificato da qualche testo «ufficiale».
Trovo che in questo modo di fare ci sia un grosso problema, soprattutto quando si accompagna a un atteggiamento polemico, aggressivo, di svalutazione degli altri. In nome della verità, naturalmente.
Per la Chiesa cattolica è necessario produrre dei documenti che presentino autorevolmente il suo messaggio. Ciò non toglie che l’eccesso di tali documenti è una selva, dove non si distingue quel che è necessario e irrinunciabile dal provvisorio. Non dimentichiamo che nel corso della storia il magistero ha cambiato parere su tante questioni.
Il rischio è presentare il cristianesimo come qualcosa di pesante, statico, complicato e poco accessibile. Inoltre, si perdono di vista le zone grigie, inevitabili quando si passa dai principi generali alla loro applicazione nelle situazioni particolari, come nel campo della bioetica. È invece necessario mantenere aperti la riflessione e il confronto, perché non abbiamo in tasca le risposte pronte a tutto.
C’è poi un altro aspetto, più profondo. La verità non è la «somma dei documenti», un insieme di affermazioni scritte. Per il cristiano, Gesù in persona è via, verità e vita. Verità è vivere in Cristo, diventare Cristo aprendosi allo Spirito. I documenti sono uno strumento di grande importanza che la Chiesa si dà, ma non un assoluto o un fine. La verità prende corpo nell’uomo, in tutto l’uomo.
Anche Gandhi poneva al centro della sua azione politica nonviolenta la verità; la definiva una ricerca in cui l’autentica conoscenza si raggiunge nel pensiero, nelle parole e nelle azioni. «La mia vita è il mio messaggio», diceva.
Come riconoscere questa verità?
Ai tempi dei padri del deserto, Abba Macario disse: «Se quando rimproveri qualcuno ti lasci muovere dall’ira, soddisfi una tua passione». E un anziano chiese a un fratello: «Quanti giorni hai trascorso senza dir male di tuo fratello, senza giudicare il prossimo e senza far uscire dalle tue labbra una parola inutile?».
Col pretesto di difendere Dio e la Chiesa, gli appelli alla verità all’insegna del conflitto e della condanna sono in realtà un modo per imporre se stessi e gratificare il proprio ego. È bello sentirsi paladini della verità contro qualcuno…«L’eucaristia ci dice che la nostra religione è inutile senza il sacramento della misericordia». Pur nella fermezza di fronte al male e all’ingiustizia, i segni della verità sono l’umiltà, il lasciare spazio, il saper ascoltare. Come il profumo di un fiore, va incontro a tutti. Ecco perché sono ormai convinto che non c’è verità senza dialogo.