martedì 18 aprile 2017

la tomba vuota

LA TOMBA VUOTA
Il testo scelto per la riflessione è il Vangelo proclamato nella messa del giorno di Pasqua. nella
veglia pasquale ci sono gli annunci tradizionali della Pasqua, con angeli e parole; nella messa del
giorno, invece, c’è il testo di cui vedremo il senso (Gv 20,1-18); un brano inquietante, perché il
Risorto non vi compare.
In questo testo ciò che si vede della risurrezione è una tomba vuota. L’idea è che, nella storia,
della resurrezione si vede solo il “buco”, l’assenza che crea.
Nella vita quotidiana l’esperienza della risurrezione non è immediatamente vittoriosa,
risolutiva, chiarificatrice, capace di dare risposte e direzioni subito chiare. La nostra esperienza
quotidiana della risurrezione è una tomba vuota, un cadavere perduto. Non c’è cadavere, dunque
non c’è più la morte, ma non c’è nemmeno il Risorto.
Invece di leggere solo i nove versetti che stanno nella liturgia, leggeremo anche il seguito, che è
l’apparizione a Maria di Magdala, e vedremo il ruolo di questa donna nella risurrezione.
Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era
ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon
Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore
dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!". Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro
discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più
veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per
terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un
luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I
discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.
Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il
sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi,
dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro:
"Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto". Detto questo, si voltò indietro e
vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché
piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l’hai
portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!". Essa
allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbunì!", che significa: Maestro! Gesù le disse:
"Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli e dì loro: Io
salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Màgdala andò subito ad
annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto.
(Giovanni 20, 1-18)
C’è un’alta frequenza, nei primi nove versetti, del verbo vedere: tutti vedono, e non si capisce
cosa. Vedono la pietra smossa, il sepolcro vuoto, le bende, ma non vedono quello che conta: non
vedono Gesù, né il suo cadavere, né lui vivo.
Altri verbi ricorrenti in questo testo sono quelli di urgenza: recarsi di buon mattino, correre,
correre insieme, correre veloce. Il tono generale è quello dell’urgenza del vedere, ma ciò che si
vede è sempre un sepolcro. La morte si vede benissimo, tutti vedono la crocifissione e riconoscono
sulla croce Gesù, il figlio del falegname, quello che hanno visto per le strade: non c’è possibilità di
errore.
Il Risorto non si vede o si vedono angeli, e se lo si vede non lo si riconosce: i due di Emmaus
non lo riconoscono, Tommaso neppure, i discepoli hanno paura, Gesù appare sul lago e loro non
sanno chi è.
Prima riflessione: come funziona una fede di cui l’unica cosa riconoscibile immediatamente è la
croce e di cui della risurrezione si vedono solo e sempre i segni negativi, la tomba vuota e la
mancanza di un cadavere? Concretamente, cosa vuol dire questo nell’esperienza che facciamo di
interpretare la nostra vita alla luce della fede? Cosa vuol dire avere fede guardando la propria vita?
Un esempio: vedere soluzioni facili, soluzioni per tutto, in genere è un pessimo segnale, perché
dalla loro parte starebbero la risurrezione e dunque la tomba vuota, l’ambiguità del riconoscimento,
ciò che non si riconosce mai in modo immediato.
C’è un solo modo in cui il Risorto viene riconosciuto ed è quando lui parla dicendo: “Pace a
voi” e quando dice a Maria: “Maria!” O afferma: “Sono proprio io!” (Lc 24, 39). Sotto la parola di
Gesù, il Risorto è riconosciuto.
Oppure, per dirla più semplicemente, quando i cristiani guardano alla storia, vedono lo stesso
disastro che è sotto gli occhi di tutti gli esseri umani: le stesse afflizioni, le stesse fatiche, lo stesso
caos, in grande le guerre e in piccolo i fallimenti della propria vita. Solo sotto la parola del Risorto
questo disastro può essere riconosciuto come tempo di salvezza.
Questo è il motivo per cui un credente non può non leggere la Scrittura. Non per un motivo
legale. E’ libero di non leggerla; ma se non la legge continua a vedere lo stesso disastro che vedono
tutti, non vede altro che tombe vuote, ferite aperte, fantasmi che non si sa chi siano. Non si deve
leggere la Bibbia perché è un dovere, ma perché la parola del Risorto, la Parola di Dio, è l’unica
possibilità che abbiamo per riconoscere i segni della risurrezione.
Tra l’altro questo ci fa ragionare sulle differenze tra credenti e non credenti. Le tombe vuote, le
ferite aperte della propria e dell’altrui vita, sono capaci di vederle i credenti e i non credenti. Il
problema è se di fronte alla tomba vuota ciò che uno sa pensare è che è stato rubato un cadavere
oppure che c’è un Risorto: questa è la differenza.
E vedere il segno della risurrezione è possibile solo sotto la parola di Gesù. Almeno, secondo i
racconti della risurrezione, non c’è altro modo: se Gesù non parla, nessuno lo riconosce.
In qualche modo mi pare di poter dire che il tempo della storia in cui stiamo è esattamente
questo intervallo tra la morte – le continue morti della storia personale e collettiva, che si
riconoscono, si vedono, si capiscono bene, e se ne comprende tutta la sofferenza, propria e altrui – e
il riconoscimento definitivo del Risorto, quando vedremo Dio faccia a faccia. Questo è un lungo
tempo di tombe vuote.
Non abbiamo più cadaveri, perché siamo oltre al semplice morire – Gesù è già risuscitato -, ma
non abbiamo ancora l’automatico riconoscimento che la risurrezione sia semplicemente tutto in
tutti. Siamo in questo tempo, dove ci è chiesta la fatica del discernimento.
Come vedremo (e questa è una tematica dell’evangelista Giovanni) i discepoli maschi
regolarmente si confondono su questa questione. Cosa c’è da fare di fronte alle tombe vuote? Essi
fanno sempre ciò che non è da fare. Le donne invece, nel Vangelo di Giovanni, fanno una figura
nettamente migliore.
La conclusione è che i discepoli tornano a casa, mentre Maria sta di fronte al sepolcro e piange:
rimane lì, e dunque lei vedrà gli angeli e il Risorto. Infatti il ruolo che l’evangelista Giovanni
attribuisce alle donne è di essere le uniche che estorcono alla storia un riconoscimento, che la
costringono a parlare del Risorto; è lo stesso ruolo che l’evangelista Luca attribuisce a Maria, la
madre di Gesù. Il “restare” della Maddalena in Giovanni è analogo al “serbare le cose nel suo
cuore” della Vergine in Luca (Cf Lc 2,19).
Questo è il ruolo dei credenti: costringere la storia a mandare angeli di fronte a una tomba vuota
perché parlino del Risorto, cercare la parola del Risorto che consenta di vedere e credere.
Nel giorno dopo il sabato... (v.1)
Per noi questa espressione è soprattutto un dato cronologico: ci fa pensare che Gesù è stato
ucciso il venerdì, è stato sepolto il sabato e poi è risuscitato di domenica. Inoltre si racconta che
c’era un problema per seppellire Gesù, perché era Pasqua, festa ebraica celebrata di sabato: Gesù
risorge il giorno seguente e su questo si fonda il fatto che i cristiani festeggiano la domenica, non il
sabato.
Queste considerazioni sono servite a chi doveva decidere il giorno festivo: hanno deciso che era
la domenica, quindi non ci sarebbe per noi più niente su cui meditare.
Ma forse è possibile un’altra riflessione: nel suo Vangelo l’evangelista Giovanni ha una visione
di totale globalità sulla storia, dalla creazione all’Apocalisse, e nel prologo usa lo stesso schema del
racconto di creazione. La creazione avviene in sette giorni: prima sono create le cose, la luce, il
giorno e la notte, le acque, la terra, gli animali, le piante, i fiori, poi l’uomo. Nell’uomo c’è il soffio
di vita di Dio e il settimo giorno, che è il sabato, Dio si riposa. Nel giorno dopo il sabato c’è la
risurrezione.
La creazione è tutta compiuta e chiunque vede le piante, le cose , gli animali, gli esseri umani.
Poi bisogna avere un po’ di cuore per vedere il soffio di Dio in noi, essere umani; bisogna già
andare un giorno avanti per riconoscere che gli essere umani , oltre ad essere muscoli, ossa, istinto ,
psiche, siano anche qualcosa che non si vede immediatamente. Poi bisogna andare ancora un giorno
avanti per arrivare al sabato, il giorno del Signore, e avere ancora un po’ più di anima per scoprire
che c’è un riposo di Dio.
Il “giorno dopo il sabato” è quello in cui si hanno occhi per vedere la resurrezione che sta
proprio dopo la totalità di questo quadro cosmico, di ciò che è previsto o prevedibile della natura,
delle cose, della storia. Anche di una storia non proprio rozza, in cui pure è presente il soffio di Dio,
del sabato. In una storia che ha una sua completezza, la resurrezione avviene dopo il sabato, avviene
oltre. Oltre la totalità della storia si fa l’esperienza del Risorto. La morte sta tutta dalla parte della
storia, in cui è immersa: tute le esperienze di croce stanno dentro i giorni della settimana.
L’esperienza della resurrezione sta nel giorno dopo il sabato, un passo più in là della storia e del
tempo che ci è dato di riconoscere per natura.
Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino,
quand’era ancora buio (v.1).
La motivazione per cui Maria va al sepolcro è concreta. Gesù era morto la sera della Parasceve,
vigilia della Pasqua, e nella festività ebraica non ci si poteva contaminare toccando dei cadaveri;
dunque al Maestro morto non era stata riservata la pietà consueta per tutti i cadaveri. cioè l’unzione
e la preparazione del corpo per la sepoltura: era stato deposto in fretta. Nel giorno dopo la festa,
Maria, secondo l’evangelista Giovani, - le donne secondo gli evangelisti Luca e Matteo, - va al
sepolcro per compiere questa opera: per ungere il corpo di Gesù e prepararlo per la sepoltura. Ma
non trova il corpo di Gesù.
Il cadavere non c’era più. Non è stato preparato per la sepoltura, non c’è sepoltura, perchè colui
che era morto non è più morto.
Per dirla concretamente, Maria è una donna di buona volontà che fa le cose per bene, anche
quelle gratuite, perché nessuno la obbligava ad occuparsi di un cadavere già deposto; fa una cosa in
più e con una certa urgenza, di buon mattino, quando era ancora buio. Ciò che si trova di fronte non
è la soddisfazione di un’opera ben compiuta, ma un sepolcro vuoto: finirà per mettersi a piangere.
Questo dovrebbe darci una buona indicazione su quanto poco siano logici gli esiti del
cristianesimo e della fede: ragionando sugli esiti – dire che ho creduto, ho fatto, e adesso tiro una
riga e faccio le somme – è un sistema che funziona malissimo, perché gli esiti della fede sono
sempre altrove.
Maria piangerà per un cadavere scomparso, ma l’esito reale è che incontrerà il Signore vivo.
C’è un rovesciamento radicale: quello che si aspettava come buon esito di ciò che era andata a fare
di buon mattino al sepolcro non c’è, fino a che lei piange; poi però le si presenta tutta un’altra
novità che non si attendeva dalla storia e neppure sapeva desiderare. In mezzo a questo, c’è il suo
fare comunque quello che le spetta e la parola del Risorto che dice: “Maria!”. Solo allora, lei può
riconoscerlo.
Maria vuole compiere un’opera di pietà: si prende cure della vita anche quando non serve più.
Curarsi di un cadavere è l’opera di pietà nobile di chi sa già che non è l’efficienza l’unico criterio.
Ma questo non basta: ci sarà un risultato ma non quello atteso; si verificherà dunque uno
spostamento, uno sradicamento.
Gli esiti del Cristianesimo si riconoscono a partire dalla Parola di Dio e, se si vuole un criterio
generale di applicazione concreta, si può stare tranquilli che, quando sembra assolutamente
ragionevole un tipo di finale, di certo non sarà quello.
Questo testo è segnato da una strana urgenza: quella di Maria che va al sepolcro, quella di
Pietro e Giovanni che corrono. C’è tutto uno strano senso di fretta: noi abbiamo fretta ed è giusto
che sia così, perché abbiamo solo un tempo, non un altro. Abbiamo un tempo determinato, breve o
lungo che sia, per riconoscere il Risorto. Solo Dio ha tutto il tempo. C’è una fretta nella necessità
del riconoscere la resurrezione, altrimenti resteremo fermi alla croce.
E cosa vede Maria? Che la pietra è stata ribaltata dal sepolcro. La storia è una porta: ci
aspettiamo che sia sbarrata da una grossa pietra ma, in genere, la difficoltà che ci aspettiamo non
c’è. Però, passati oltre, c’è una tomba vuota. Rischiamo di trascorrere la nostra intera esistenza
affannati dal pensiero di come potremo rotolare la pietra dalla porta che è la vita; poi vediamo che
la pietra è già rotolata via e quello che c’è dietro non è il cadavere che ci aspettiamo, ma una tomba
vuota: quella che diventerà il luogo dove si potrà scoprire il Risorto.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse
loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!"
Il primo esito di tutta la buona volontà di Maria è di non sapere. Quando, come risultato di
una buona dose di impegno, la conclusione è che non sapete, di solito va bene! Non è
tranquillizzante, però pare che funzioni così; è un archetipo della Scrittura. Ogni volta che qualcuno
si muove sulla fede, come risultato si ritrova il non sapere. Pensate alla narrazione di Matteo circa i
Magi che chiedono a Erode: “Dov’ è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella
e siamo venuti per adorarlo» (Mt 2,2). Hanno riconosciuto un segno, hanno avuto il coraggio di
partire su quel segno, per motivi puri, per adorarlo, con buona disposizione d’animo. e il risultato è:
Dov’è, dunque?
Il risultato è una domanda. Chi si mette in cammino verso il Signore di solito ha questo come
risultato. Se ha delle risposte, dovrebbe cominciare a preoccuparsi.
La Maddalena dice: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro». È la spiegazione più semplice:
un cadavere non se ne va da solo, dunque qualcuno l’ha portato via e «non sappiamo dove l’hanno
posto».
Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. (v. 3)
Nel Vangelo di Giovanni le figure di Pietro e Giovanni sono anche simboliche: Pietro è figura
della fede, Giovanni dell’amore. La fede si sbaglia e tradisce, è fragile — e noi lo sappiamo bene —
ma ha un ruolo di supremazia (Pietro è il primo fra gli apostoli). Nel tempo della storia la fede
governa, ma la sua caratteristica fondamentale è che si sbaglia, tradisce e in genere è un più lenta:
arriva dopo. come in questo caso.
Normalmente l’amore si sbaglia meno, tradisce anche meno, ma deve sottomettersi alla
supremazia della fede. Nel cristianesimo non si ama qualsiasi cosa, ma si ama il Signore Gesù, e c’è
una sottomissione dell’amore che aspetta ad entrare. La fede valuta, interroga, guarda le bende, il
sudario, fa l’analisi, organizza. si fa le domande, studia. L’amore, di solito, si butta.
Il capitolo seguente di questo Vangelo racconta l’apparizione di Gesù sul lago di Tiberiade:
Pietro e Giovanni, sempre loro due, sono sulla barca, ma non lo riconoscono. Quando Giovanni
dice: “È il Signore!”, Pietro si tuffa (Cf Gv 21, 4-7): l’amore riconosce e la fede si muove.
Ora noi dovremmo imparare a fare i conti, da adulti, con queste due componenti della nostra
esistenza di fede: la fede e l’amore non camminano quasi mai insieme, perché solo Gesù cresce in
età, sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini; noi cresciamo un po’ più disorganici: l’amore
corre avanti, la fede resta indietro, poi uno aspetta l’altro. La fede ha da chiedere, da studiare, da
farsi mille domande. da capire, da governare, da decidere (e non sempre bene, come mostra Pietro:
la fede a volte tradisce, rinnega). L’amore a volte corre avanti o corre indietro, non sa bene;
riconosce, ma poi non si muove; si entusiasma, ma poi non sa dove andare; non governa.
Sotto la croce c’è Giovanni, c’è l’amore. Pietro ha tradito. Ma quando Gesù se ne va, Pietro è il
primo tra gli apostoli. Dovremmo forse metterci un po’ più quietamente iii questa dinamica interna
della nostra fede, nell’esperienza di avere queste due componenti che, come ben si vede qui. non
corrono insieme, che devono reciprocamente aspettarsi e trovarsi, e sono entrambe necessarie.
Correvano insieme tutti e due ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per
primo al sepolcro. (v. 4)
La fede ha gambe. ma l’amore ha ali. Ci sono esperienze nella nostra esistenza in cui uno butta
avanti il cuore, perché altrimenti non proseguirebbe, non avrebbe motivi sufficienti, ma è altrettanto
vero che se poi questo buttare avanti il cuore non viene raggiunto dalle gambe della fede, dal
domandarsi, dal comprendere, dal rafforzarsi, dallo studiare, dall’ indagare, dall’analizzare, questo
gesto si perde, in qualche modo si scompensa.
Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che
lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudano, che gli era stato posto
sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro
discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora
compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. (vv. 5-9)
Questo è veramente bellissimo, perché Giovanni vede esattamente ciò che aveva visto Pietro:
un sepolcro vuoto, le bende per terra, il sudano piegato... né più, né meno. “Vide e credette”: che
cosa? Qualcuno dice: che era risorto. Il versetto seguente dice: “non avevano infatti ancora
compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”. Dunque non è questo che
Giovanni ha creduto, perché non l’aveva capito!
Il punto è che l’amore vede le stesse cose della fede e della mante ma, a differenza della fede,
crede a dei contenuti: si fida in qualche modo, si sbilancia e dunque “vede e crede”, pur non avendo
compreso cosa dicevano le Scritture. Di Pietro non si dice che credette.
Qui si ferma l’annuncio della resurrezione della Messa del giorno di Pasqua. Tutto ciò che la
Chiesa ci dice sulla Resurrezione e nella liturgia ci chiede di credere, ciò che ci pone come dono
della festa di Pasqua, è che fede e amore incontrarono un sepolcro vuoto, e “video” ma non si
capisce cosa.
I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa. Maria invece stava all’esterno vicino al
sepolcro e piangeva (vv 10 - 11)
Maria non se ne va: per prima cosa, sta lì e piange. Ha in qualche modo il coraggio di dire il suo
bisogno, il suo dolore, la sua ferita aperta su questa tomba trovata vuota.
Spesso facciamo molta fatica a vivere l’esperienza di fede, perché non abbiamo nessun
desiderio, nessuna ferita, nessuna lacrima da versare. Non osiamo, non abbiamo dentro di noi le
parole per pensare che vorremmo alcune cose. Non osiamo desiderare i miracoli, per esempio, non
chiediamo risurrezione. Lo stare di Maria accanto al sepolcro e piangere, come un bambino,
ostinarsi a voler in qualche modo ricavare qualcosa da lì, se non altro per disperazione, questo non
andare via, è molto importante.
Lei ha il coraggio di estorcere a Dio una risposta a qualsiasi costo. E’ uno degli aspetti che nella
educazione alla fede oggi manca molto.
Si osa una domanda dentro un amore, dentro una fiducia. Ci sono milioni di persone da cui non
ci attendiamo assolutamente nulla, perché sono totalmente indifferenti. L’esperienza quotidiana
della burocrazia è di questo tipo; anzi, ci si aspetta un disastro, pur sapendo che teoricamente si
avrebbero dei diritti. Perché non si ha nessuna fiducia nei confronti della burocrazia: non si osa
nemmeno chiedere o far valere i propri diritti. Quanto meno ci importa delle persone, tanto meno ci
aspettiamo da loro.
Così, spesso, ci aspettiamo pochissimo, in fondo, dalla fede. Ci aspettiamo speso molto da noi
stessi dentro la fede (mi impegno, faccio, miglioro, cresco), ma che “Dio faccia Dio”, non ce lo
aspettiamo quasi mai e questo è indice di uno scarsissimo rapporto fiduciario con lui.
Maria sta e piange, perchè coltiva un’attesa su quel sepolcro: non si rassegna all’idea che sia
vuoto, nè all’idea che non stia succedendo niente.
Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno
dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù (vv 11-12)
Le lacrime di Maria chiamano angeli. Pietro e Giovanni non hanno visto angeli. Lei li vede
perché piange, chiede. I due angeli stanno nel luogo dove era stato posto Gesù. Il cadavere non c’è,
perché il Signore non è più morto, dunque il suo desiderio non può essere esaudito.
Ma al posto del cadavere le vengono dati due angeli: la sua richiesta non è esaudita, perchè non
ha trovato il cadavere, ma viene ampiamente superata.
E’ il misterioso procedere della fede: “non esaudito” non vuole dire “non ascoltato”, nè “non
accolto”.
Spesso nell’Antico Testamento i giusti in difficoltà (Elia, Sara di Tobia..) pregano per chiedere
la morte; il testo dice che la loro preghiera viene accolta, e nel racconto che segue accadono cose
che danno loro una nuova vita. E’ lo strano modo di Dio di prendere sul serio le richieste di chi ha
fede in lui.
Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?" (v. 13)
Lo spazio della fede è spazio di domande. Se non ci sono domande, non c’è spazio possibile. Il
viandante misterioso che incontra i due di Emmaus dice: “che sono questi discorsi che state facendo
fra voi durante il cammino?” (Lc 24, 17). Tutti gli incontri di Gesù cominciano con una domanda,
una richiesta, quindi anche gli angeli chiedono: “perchè piangi?”. Le risposte possibili erano molte,
ma Maria dice: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”.
Non è così normale. Il racconto che ci viene offerto è che Maria ha un unico pensiero: il corpo
del Signore. Il suo desiderio è talmente forte che non si stupiSce di niente, che non si interroga su
nient’altro: è la totalità assoluta del suo desiderio su questo risorto. “Hanno portato via il mio
Signore e non so dove lo hanno posto”. Lei non sa, noi non sappiamo.
Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era
Gesù. (v. 14)
Qui si continua a vedere e a non sapere che cosa. Finalmente, dopo aver visto bende, sudari e
angeli, si vede Gesù. Visto Gesù, non si sa che è lui; e Gesù le dice: “Donna, perchè piangi? Chi
cerchi?”
Si riapre di nuovo lo spazio della domanda.
Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu,
dimmi dove lo hai posto ed io andrò a prenderlo». (v. 15)
Ancora la totalità di questo desiderio che si esprime in quel «io andrò a prenderlo”. È mio! È la
logica di un assoluto legame. di una forza inaudita. E Gesù le disse: “Maria!” E qui, dove ci
aspetteremmo un bel verbo “vide”, dove ci aspetteremmo che essa allora, voltatasi verso di lui, lo
vedesse e lo riconoscesse, nulla. “Essa allora, voltàtasi verso di lui, gli disse in ebraico:
«Rabbuni»”. Dove finalmente ci sarebbe Gesù da vedere, gli si parla. Esattamente come nel
racconto dei due di Emmaus: spezzò il pane, scomparve alla loro vista e i loro occhi si aprirono e lo
riconobbero. Riescono a vederlo solo quando non c’è. Questo ci dice qualcosa su cosa voglia dire
riconoscere i segni della risurrezione nella nostra storia: si vedono quando non ci sono, quando
scompaiono.
Fine del dialogo: quando lui c’è, lui dice: «Maria» e lei risponde: “Maestro”. Punto, finito. Non
succede niente altro. Nessun colpo di bacchetta magica, nessuna meraviglia, assolutamente nulla: è
il puro riconoscimento. E lo scambio di nomi propri, l’indicazione del puro riconoscimento: ci si
chiama per nome.
Questo è l’esito finale del cristianesimo: chiamarsi per nome, anzi, essere chiamati per nome da
Gesù, resi alla pienezza di noi stessi e della nostra identità.
Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre: ma va’ dai miei
fratelli e dì loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». (v. 17)
E’ strana questa parola, perché è l’unica parola dura di tutto il testo. «Non mi trattenere», «Non
volere toccarmi».
Dunque, non si tocca. E “non volere toccarmi” non è una prescrizione su Gesù, perché in
qualche modo non sia giusto toccarlo, ma su Maria, sul suo desiderio: lei cercava un corpo e le
viene detto: Non è questo che devi cercare, non è un cadavere che devi trovare. Non voler toccare.
Cerca un’altra cosa. Ma Gesù, poco più oltre nello stesso capitolo, si farà toccare da Tommaso:
“Stendi la tua mano, e mettila nel mio costato” (Gv 20,27).
Qui la questione è il desiderio di Maria, quello che lei cercava, cioè il cadavere di un morto.
Gesù le sta dicendo: Sono vivo, non mi toccare, sono un’altra cosa e non quello che cercavi tu.
Sempre per mettere un po’ in difficoltà il nostro giudizio sugli esiti, sul riconoscere i segni della
risurrezione.
Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: *Ho visto il Signore» e anche
ciò che le aveva detto. (v. 18)
Finalmente il verbo “vedere” assume un complemento oggetto: “Ho visto il Signore”; si capisce
cosa si vede.
A conclusione di questa riflessione, due questioni.
La prima: che cosa ci aspettiamo dalla nostra fede? Per dire che la fede ha funzionato nella
nostra esistenza, che non siamo stati ingannati da Dio, qual è l’esito che ci attendiamo? Perché
questo è il caso serio. Di per sé si chiama “definizione teologica della salvezza”, cioè: che cosa
pensiamo debba succedere per sapere che il Signore ha mantenuto le sue promesse nella nostra vita?
Di solito facciamo la domanda opposta: che cosa devo fare perché Dio mantenga le sue promesse?
Invece mi pare che questo testo ci inviti a chiederci quale sia l’esito che attendiamo, quale la
risurrezione che aspettiamo, confrontandola con l’offerta di Dio. Proviamo a vedere se quello che ci
aspettiamo è ciò che Dio offre o no.
La seconda questione: come si riconoscono i segni di risurrezione intorno a noi? Come si
riconosce la croce lo sappiamo: non occorre fare tanto sforzo per trovare una ferita, un dolore o un
fratello a cui stare vicini. Ma dove e come si fa a vedere la risurrezione? Si vede o non si vede, c’è o
non c’è? Riguarda la fine del mondo? Riguarda la morte? Riguarda la vita? Riguarda che cosa? Da
che parte sta?