sabato 28 aprile 2012

CHIESA + CRISTIANA ANTICA + CATTOLICA E + APOSTOLICA
                                                              
Prot.  01 / 2012  -  DECRETO di deposizione dal Ministero Presbiterale
                     
 In riferimento alla Lettera inviata in data 25 Aprile 2012  dal Rev.mo Signore Padre ANIELLO D’ANGELO, Parroco della Parrocchia dei Santi Francesco e Chiara di Assisi in Palinuro,  provincia di Salerno,  in cui CHIEDE di essere esonerato dall’appartenenza alla nostra Chiesa Diocesana, dopo aver udito il nostro Consiglio Presbiterale Diocesano, e dopo aver conferito con lo stesso Padre Aniello D’Angelo e accolto la sua richiesta
 PROCEDIAMO alla DEPOSIZIONE dallo STATO PRESBITERALE
di  PADRE ANIELLO D’ANGELO
restituendolo allo  STATO LAICALE 
e sciogliendolo al contempo dagli obblighi e diritti del Ministero Presbiterale.
Il Signore Gesù Pastore Buono, che entra nell’Ovile per la porta vera, quella del servizio umile ai fratelli e alla sua Chiesa, comunità di carità e di amore, ci custodisca nella  sua grazia e assista Aniello D’ANGELO nel cammino della vita.           
 Amen       

+ Giovanni Climaco Mapelli
Arcivescovo Primate
  
Il Cancelliere Diocesano
Mons. Mario Metodio Cirigliano    
                                          
  Milano,  il 28 del mese di Aprile dell’anno 2012

www.chiesaanticacattolica.it

venerdì 6 aprile 2012

La tomba vuota

LA TOMBA VUOTA


Meditazione di Padre Mario Metodio Cirigliano
Il testo scelto per la riflessione è il Vangelo proclamato nella messa del giorno di Pasqua. nella veglia pasquale ci sono gli annunci tradizionali della Pasqua, con angeli e parole; nella messa del giorno, invece, c’è il testo di cui vedremo il senso (Gv 20,1-18); un brano inquietante, perché il Risorto non vi compare.
In questo testo ciò che si vede della risurrezione è una tomba vuota. L’idea è che, nella storia, della resurrezione si vede solo il “buco”, l’assenza che crea. Nella vita quotidiana l’esperienza della risurrezione non è immediatamente vittoriosa, risolutiva, chiarificatrice, capace di dare risposte e direzioni subito chiare. La nostra esperienza quotidiana della risurrezione è una tomba vuota, un cadavere perduto. Non c’è cadavere, dunque non c’è più la morte, ma non c’è nemmeno il Risorto.
Invece di leggere solo i nove versetti che stanno nella liturgia, leggeremo anche il seguito, che è l’apparizione a Maria di Magdala, e vedremo il ruolo di questa donna nella risurrezione.
Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!". Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.
Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto". Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbunì!", che significa: Maestro! Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto.
(Giovanni 20, 1-18)

C’è un’alta frequenza, nei primi nove versetti, del verbo vedere: tutti vedono, e non si capisce cosa. Vedono la pietra smossa, il sepolcro vuoto, le bende, ma non vedono quello che conta: non vedono Gesù, né il suo cadavere, né lui vivo.
Altri verbi ricorrenti in questo testo sono quelli di urgenza: recarsi di buon mattino, correre, correre insieme, correre veloce. Il tono generale è quello dell’urgenza del vedere, ma ciò che si vede è sempre un sepolcro. La morte si vede benissimo, tutti vedono la crocifissione e riconoscono sulla croce Gesù, il figlio del falegname, quello che hanno visto per le strade: non c’è possibilità di errore.
Il Risorto non si vede o si vedono angeli, e se lo si vede non lo si riconosce: i due di Emmaus non lo riconoscono, Tommaso neppure, i discepoli hanno paura, Gesù appare sul lago e loro non sanno chi è.
Prima riflessione: come funziona una fede di cui l’unica cosa riconoscibile immediatamente è la croce e di cui della risurrezione si vedono solo e sempre i segni negativi, la tomba vuota e la mancanza di un cadavere? Concretamente, cosa vuol dire questo nell’esperienza che facciamo di interpretare la nostra vita alla luce della fede? Cosa vuol dire avere fede guardando la propria vita?
Un esempio: vedere soluzioni facili, soluzioni per tutto, in genere è un pessimo segnale, perché dalla loro parte starebbero la risurrezione e dunque la tomba vuota, l’ambiguità del riconoscimento, ciò che non si riconosce mai in modo immediato.
C’è un solo modo in cui il Risorto viene riconosciuto ed è quando lui parla dicendo: “Pace a voi” e quando dice a Maria: “Maria!” O afferma: “Sono proprio io!” (Lc 24, 39). Sotto la parola di Gesù, il Risorto è riconosciuto.
Oppure, per dirla più semplicemente, quando i cristiani guardano alla storia, vedono lo stesso disastro che è sotto gli occhi di tutti gli esseri umani: le stesse afflizioni, le stesse fatiche, lo stesso caos, in grande le guerre e in piccolo i fallimenti della propria vita. Solo sotto la parola del Risorto questo disastro può essere riconosciuto come tempo di salvezza.
Questo è il motivo per cui un credente non può non leggere la Scrittura. Non per un motivo legale. E’ libero di non leggerla; ma se non la legge continua a vedere lo stesso disastro che vedono tutti, non vede altro che tombe vuote, ferite aperte, fantasmi che non si sa chi siano. Non si deve leggere la Bibbia perché è un dovere, ma perché la parola del Risorto, la Parola di Dio, è l’unica possibilità che abbiamo per riconoscere i segni della risurrezione.
Tra l’altro questo ci fa ragionare sulle differenze tra credenti e non credenti. Le tombe vuote, le ferite aperte della propria e dell’altrui vita, sono capaci di vederle i credenti e i non credenti. Il problema è se di fronte alla tomba vuota ciò che uno sa pensare è che è stato rubato un cadavere oppure che c’è un Risorto: questa è la differenza.
E vedere il segno della risurrezione è possibile solo sotto la parola di Gesù. Almeno, secondo i racconti della risurrezione, non c’è altro modo: se Gesù non parla, nessuno lo riconosce.
In qualche modo mi pare di poter dire che il tempo della storia in cui stiamo è esattamente questo intervallo tra la morte – le continue morti della storia personale e collettiva, che si riconoscono, si vedono, si capiscono bene, e se ne comprende tutta la sofferenza, propria e altrui – e il riconoscimento definitivo del Risorto, quando vedremo Dio faccia a faccia. Questo è un lungo tempo di tombe vuote.
Non abbiamo più cadaveri, perché siamo oltre al semplice morire – Gesù è già risuscitato -, ma non abbiamo ancora l’automatico riconoscimento che la risurrezione sia semplicemente tutto in tutti. Siamo in questo tempo, dove ci è chiesta la fatica del discernimento.
Come vedremo (e questa è una tematica dell’evangelista Giovanni) i discepoli maschi regolarmente si confondono su questa questione. Cosa c’è da fare di fronte alle tombe vuote? Essi fanno sempre ciò che non è da fare. Le donne invece, nel Vangelo di Giovanni, fanno una figura nettamente migliore.
La conclusione è che i discepoli tornano a casa, mentre Maria sta di fronte al sepolcro e piange: rimane lì, e dunque lei vedrà gli angeli e il Risorto. Infatti il ruolo che l’evangelista Giovanni attribuisce alle donne è di essere le uniche che estorcono alla storia un riconoscimento, che la costringono a parlare del Risorto; è lo stesso ruolo che l’evangelista Luca attribuisce a Maria, la madre di Gesù. Il “restare” della Maddalena in Giovanni è analogo al “serbare le cose nel suo cuore” della Vergine in Luca (Cf Lc 2,19).
Questo è il ruolo dei credenti: costringere la storia a mandare angeli di fronte a una tomba vuota perché parlino del Risorto, cercare la parola del Risorto che consenta di vedere e credere.
Nel giorno dopo il sabato... (v.1)
Per noi questa espressione è soprattutto un dato cronologico: ci fa pensare che Gesù è stato ucciso il venerdì, è stato sepolto il sabato e poi è risuscitato di domenica. Inoltre si racconta che c’era un problema per seppellire Gesù, perché era Pasqua, festa ebraica celebrata di sabato: Gesù risorge il giorno seguente e su questo si fonda il fatto che i cristiani festeggiano la domenica, non il sabato.
Queste considerazioni sono servite a chi doveva decidere il giorno festivo: hanno deciso che era la domenica, quindi non ci sarebbe per noi più niente su cui meditare. Ma forse è possibile un’altra riflessione: nel suo Vangelo l’evangelista Giovanni ha una visione di totale globalità sulla storia, dalla creazione all’Apocalisse, e nel prologo usa lo stesso schema del racconto di creazione. La creazione avviene in sette giorni: prima sono create le cose, la luce, il giorno e la notte, le acque, la terra, gli animali, le piante, i fiori, poi l’uomo. Nell’uomo c’è il soffio di vita di Dio e il settimo giorno, che è il sabato, Dio si riposa. Nel giorno dopo il sabato c’è la risurrezione.
La creazione è tutta compiuta e chiunque vede le piante, le cose , gli animali, gli esseri umani.
Poi bisogna avere un po’ di cuore per vedere il soffio di Dio in noi, essere umani; bisogna già andare un giorno avanti per riconoscere che gli essere umani , oltre ad essere muscoli, ossa, istinto, psiche, siano anche qualcosa che non si vede immediatamente. Poi bisogna andare ancora un giorno avanti per arrivare al sabato, il giorno del Signore, e avere ancora un po’ più di anima per scoprire che c’è un riposo di Dio.
Il “giorno dopo il sabato” è quello in cui si hanno occhi per vedere la resurrezione che sta proprio dopo la totalità di questo quadro cosmico, di ciò che è previsto o prevedibile della natura, delle cose, della storia. Anche di una storia non proprio rozza, in cui pure è presente il soffio di Dio, del sabato. In una storia che ha una sua completezza, la resurrezione avviene dopo il sabato, avviene oltre. Oltre la totalità della storia si fa l’esperienza del Risorto. La morte sta tutta dalla parte della storia, in cui è immersa: tute le esperienze di croce stanno dentro i giorni della settimana.
L’esperienza della resurrezione sta nel giorno dopo il sabato, un passo più in là della storia e del tempo che ci è dato di riconoscere per natura.
Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio (v.1).
La motivazione per cui Maria va al sepolcro è concreta. Gesù era morto la sera della Parasceve, vigilia della Pasqua, e nella festività ebraica non ci si poteva contaminare toccando dei cadaveri; dunque al Maestro morto non era stata riservata la pietà consueta per tutti i cadaveri. cioè l’unzione e la preparazione del corpo per la sepoltura: era stato deposto in fretta. Nel giorno dopo la festa, Maria, secondo l’evangelista Giovani, - le donne secondo gli evangelisti Luca e Matteo, - va al sepolcro per compiere questa opera: per ungere il corpo di Gesù e prepararlo per la sepoltura. Ma non trova il corpo di Gesù. Il cadavere non c’era più. Non è stato preparato per la sepoltura, non c’è sepoltura, perchè colui che era morto non è più morto.
Per dirla concretamente, Maria è una donna di buona volontà che fa le cose per bene, anche quelle gratuite, perché nessuno la obbligava ad occuparsi di un cadavere già deposto; fa una cosa in più e con una certa urgenza, di buon mattino, quando era ancora buio. Ciò che si trova di fronte non è la soddisfazione di un’opera ben compiuta, ma un sepolcro vuoto: finirà per mettersi a piangere.
Questo dovrebbe darci una buona indicazione su quanto poco siano logici gli esiti del cristianesimo e della fede: ragionando sugli esiti – dire che ho creduto, ho fatto, e adesso tiro una riga e faccio le somme – è un sistema che funziona malissimo, perché gli esiti della fede sono sempre altrove.
Maria piangerà per un cadavere scomparso, ma l’esito reale è che incontrerà il Signore vivo. C’è un rovesciamento radicale: quello che si aspettava come buon esito di ciò che era andata a fare di buon mattino al sepolcro non c’è, fino a che lei piange; poi però le si presenta tutta un’altra novità che non si attendeva dalla storia e neppure sapeva desiderare. In mezzo a questo, c’è il suo fare comunque quello che le spetta e la parola del Risorto che dice: “Maria!”. Solo allora, lei può riconoscerlo.
Maria vuole compiere un’opera di pietà: si prende cure della vita anche quando non serve più.
Curarsi di un cadavere è l’opera di pietà nobile di chi sa già che non è l’efficienza l’unico criterio.
Ma questo non basta: ci sarà un risultato ma non quello atteso; si verificherà dunque uno spostamento, uno sradicamento.
Gli esiti del Cristianesimo si riconoscono a partire dalla Parola di Dio e, se si vuole un criterio generale di applicazione concreta, si può stare tranquilli che, quando sembra assolutamente ragionevole un tipo di finale, di certo non sarà quello. Questo testo è segnato da una strana urgenza: quella di Maria che va al sepolcro, quella di Pietro e Giovanni che corrono. C’è tutto uno strano senso di fretta: noi abbiamo fretta ed è giusto che sia così, perché abbiamo solo un tempo, non un altro. Abbiamo un tempo determinato, breve o lungo che sia, per riconoscere il Risorto. Solo Dio ha tutto il tempo. C’è una fretta nella necessità del riconoscere la resurrezione, altrimenti resteremo fermi alla croce.
E cosa vede Maria? Che la pietra è stata ribaltata dal sepolcro. La storia è una porta: ci aspettiamo che sia sbarrata da una grossa pietra ma, in genere, la difficoltà che ci aspettiamo non c’è. Però, passati oltre, c’è una tomba vuota. Rischiamo di trascorrere la nostra intera esistenza affannati dal pensiero di come potremo rotolare la pietra dalla porta che è la vita; poi vediamo che la pietra è già rotolata via e quello che c’è dietro non è il cadavere che ci aspettiamo, ma una tomba vuota: quella che diventerà il luogo dove si potrà scoprire il Risorto.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!"
Il primo esito di tutta la buona volontà di Maria è di non sapere. Quando, come risultato di una buona dose di impegno, la conclusione è che non sapete, di solito va bene! Non è tranquillizzante, però pare che funzioni così; è un archetipo della Scrittura. Ogni volta che qualcuno si muove sulla fede, come risultato si ritrova il non sapere. Pensate alla narrazione di Matteo circa i Magi che chiedono a Erode: “Dov’ è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo» (Mt 2,2). Hanno riconosciuto un segno, hanno avuto il coraggio di partire su quel segno, per motivi puri, per adorarlo, con buona disposizione d’animo. e il risultato è: Dov’è, dunque?
Il risultato è una domanda. Chi si mette in cammino verso il Signore di solito ha questo come risultato. Se ha delle risposte, dovrebbe cominciare a preoccuparsi.
La Maddalena dice: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro». È la spiegazione più semplice: un cadavere non se ne va da solo, dunque qualcuno l’ha portato via e «non sappiamo dove l’hanno posto».
Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. (v. 3)
Nel Vangelo di Giovanni le figure di Pietro e Giovanni sono anche simboliche: Pietro è figura della fede, Giovanni dell’amore. La fede si sbaglia e tradisce, è fragile — e noi lo sappiamo bene — ma ha un ruolo di supremazia (Pietro è il primo fra gli apostoli). Nel tempo della storia la fede governa, ma la sua caratteristica fondamentale è che si sbaglia, tradisce e in genere è un più lenta: arriva dopo. come in questo caso. Normalmente l’amore si sbaglia meno, tradisce anche meno, ma deve sottomettersi alla supremazia della fede. Nel cristianesimo non si ama qualsiasi cosa, ma si ama il Signore Gesù, e c’è una sottomissione dell’amore che aspetta ad entrare. La fede valuta, interroga, guarda le bende, il sudario, fa l’analisi, organizza. si fa le domande, studia. L’amore, di solito, si butta. Il capitolo seguente di questo Vangelo racconta l’apparizione di Gesù sul lago di Tiberiade: Pietro e Giovanni, sempre loro due, sono sulla barca, ma non lo riconoscono. Quando Giovanni dice: “È il Signore!”, Pietro si tuffa (Cf Gv 21, 4-7): l’amore riconosce e la fede si muove. Ora noi dovremmo imparare a fare i conti, da adulti, con queste due componenti della nostra esistenza di fede: la fede e l’amore non camminano quasi mai insieme, perché solo Gesù cresce in età, sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini; noi cresciamo un po’ più disorganici: l’amore corre avanti, la fede resta indietro, poi uno aspetta l’altro. La fede ha da chiedere, da studiare, da farsi mille domande. da capire, da governare, da decidere (e non sempre bene, come mostra Pietro: la fede a volte tradisce, rinnega). L’amore a volte corre avanti o corre indietro, non sa bene; riconosce, ma poi non si muove; si entusiasma, ma poi non sa dove andare; non governa. Sotto la croce c’è Giovanni, c’è l’amore. Pietro ha tradito. Ma quando Gesù se ne va, Pietro è il primo tra gli apostoli. Dovremmo forse metterci un po’ più quietamente iii questa dinamica interna della nostra fede, nell’esperienza di avere queste due componenti che, come ben si vede qui. non corrono insieme, che devono reciprocamente aspettarsi e trovarsi, e sono entrambe necessarie.

Correvano insieme tutti e due ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. (v. 4)
La fede ha gambe. ma l’amore ha ali. Ci sono esperienze nella nostra esistenza in cui uno butta avanti il cuore, perché altrimenti non proseguirebbe, non avrebbe motivi sufficienti, ma è altrettanto vero che se poi questo buttare avanti il cuore non viene raggiunto dalle gambe della fede, dal domandarsi, dal comprendere, dal rafforzarsi, dallo studiare, dall’ indagare, dall’analizzare, questo gesto si perde, in qualche modo si scompensa.
Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudano, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. (vv. 5-9)
Questo è veramente bellissimo, perché Giovanni vede esattamente ciò che aveva visto Pietro: un sepolcro vuoto, le bende per terra, il sudano piegato... né più, né meno. “Vide e credette”: che cosa? Qualcuno dice: che era risorto. Il versetto seguente dice: “non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”. Dunque non è questo che Giovanni ha creduto, perché non l’aveva capito!
Il punto è che l’amore vede le stesse cose della fede e della mante ma, a differenza della fede, crede a dei contenuti: si fida in qualche modo, si sbilancia e dunque “vede e crede”, pur non avendocompreso cosa dicevano le Scritture. Di Pietro non si dice che credette.
Qui si ferma l’annuncio della resurrezione della Messa del giorno di Pasqua. Tutto ciò che la Chiesa ci dice sulla Resurrezione e nella liturgia ci chiede di credere, ciò che ci pone come dono della festa di Pasqua, è che fede e amore incontrarono un sepolcro vuoto, e “video” ma non si capisce cosa.

I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa. Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva (vv 10 - 11)
Maria non se ne va: per prima cosa, sta lì e piange. Ha in qualche modo il coraggio di dire il suo bisogno, il suo dolore, la sua ferita aperta su questa tomba trovata vuota. Spesso facciamo molta fatica a vivere l’esperienza di fede, perché non abbiamo nessun desiderio, nessuna ferita, nessuna lacrima da versare. Non osiamo, non abbiamo dentro di noi le parole per pensare che vorremmo alcune cose. Non osiamo desiderare i miracoli, per esempio, non chiediamo risurrezione. Lo stare di Maria accanto al sepolcro e piangere, come un bambino, ostinarsi a voler in qualche modo ricavare qualcosa da lì, se non altro per disperazione, questo non andare via, è molto importante.
Lei ha il coraggio di estorcere a Dio una risposta a qualsiasi costo. E’ uno degli aspetti che nella educazione alla fede oggi manca molto. Si osa una domanda dentro un amore, dentro una fiducia. Ci sono milioni di persone da cui non ci attendiamo assolutamente nulla, perché sono totalmente indifferenti. L’esperienza quotidiana della burocrazia è di questo tipo; anzi, ci si aspetta un disastro, pur sapendo che teoricamente si avrebbero dei diritti. Perché non si ha nessuna fiducia nei confronti della burocrazia: non si osa nemmeno chiedere o far valere i propri diritti. Quanto meno ci importa delle persone, tanto meno ci aspettiamo da loro.
Così, spesso, ci aspettiamo pochissimo, in fondo, dalla fede. Ci aspettiamo speso molto da noi stessi dentro la fede (mi impegno, faccio, miglioro, cresco), ma che “Dio faccia Dio”, non ce lo aspettiamo quasi mai e questo è indice di uno scarsissimo rapporto fiduciario con lui. Maria sta e piange, perchè coltiva un’attesa su quel sepolcro: non si rassegna all’idea che sia vuoto, nè all’idea che non stia succedendo niente.
Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù (vv 11-12)
Le lacrime di Maria chiamano angeli. Pietro e Giovanni non hanno visto angeli. Lei li vede perché piange, chiede. I due angeli stanno nel luogo dove era stato posto Gesù. Il cadavere non c’è, perché il Signore non è più morto, dunque il suo desiderio non può essere esaudito. Ma al posto del cadavere le vengono dati due angeli: la sua richiesta non è esaudita, perchè non ha trovato il cadavere, ma viene ampiamente superata.
E’ il misterioso procedere della fede: “non esaudito” non vuole dire “non ascoltato”, nè “non accolto”.
Spesso nell’Antico Testamento i giusti in difficoltà (Elia, Sara di Tobia..) pregano per chiedere la morte; il testo dice che la loro preghiera viene accolta, e nel racconto che segue accadono cose che danno loro una nuova vita. E’ lo strano modo di Dio di prendere sul serio le richieste di chi ha fede in lui.

Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?" (v. 13)
Lo spazio della fede è spazio di domande. Se non ci sono domande, non c’è spazio possibile. Il viandante misterioso che incontra i due di Emmaus dice: “che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?” (Lc 24, 17). Tutti gli incontri di Gesù cominciano con una domanda, una richiesta, quindi anche gli angeli chiedono: “perchè piangi?”. Le risposte possibili erano molte, ma Maria dice: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”. Non è così normale. Il racconto che ci viene offerto è che Maria ha un unico pensiero: il corpo del Signore. Il suo desiderio è talmente forte che non si stupiSce di niente, che non si interroga su nient’altro: è la totalità assoluta del suo desiderio su questo risorto. “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”. Lei non sa, noi non sappiamo.

Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. (v. 14)
Qui si continua a vedere e a non sapere che cosa. Finalmente, dopo aver visto bende, sudari e angeli, si vede Gesù. Visto Gesù, non si sa che è lui; e Gesù le dice: “Donna, perchè piangi? Chi cerchi?”
Si riapre di nuovo lo spazio della domanda.
Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto ed io andrò a prenderlo». (v. 15)

Ancora la totalità di questo desiderio che si esprime in quel «io andrò a prenderlo”. È mio! È la logica di un assoluto legame. di una forza inaudita. E Gesù le disse: “Maria!” E qui, dove ci aspetteremmo un bel verbo “vide”, dove ci aspetteremmo che essa allora, voltatasi verso di lui, lo vedesse e lo riconoscesse, nulla. “Essa allora, voltàtasi verso di lui, gli disse in ebraico: «Rabbuni»”. Dove finalmente ci sarebbe Gesù da vedere, gli si parla. Esattamente come nel racconto dei due di Emmaus: spezzò il pane, scomparve alla loro vista e i loro occhi si aprirono e lo riconobbero. Riescono a vederlo solo quando non c’è. Questo ci dice qualcosa su cosa voglia dire riconoscere i segni della risurrezione nella nostra storia: si vedono quando non ci sono, quando scompaiono. Fine del dialogo: quando lui c’è, lui dice: «Maria» e lei risponde: “Maestro”. Punto, finito. Non succede niente altro. Nessun colpo di bacchetta magica, nessuna meraviglia, assolutamente nulla: è il puro riconoscimento. E lo scambio di nomi propri, l’indicazione del puro riconoscimento: ci si chiama per nome. Questo è l’esito finale del cristianesimo: chiamarsi per nome, anzi, essere chiamati per nome da Gesù, resi alla pienezza di noi stessi e della nostra identità.

Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre: ma va’ dai miei fratelli e dì loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». (v. 17)
E’ strana questa parola, perché è l’unica parola dura di tutto il testo. «Non mi trattenere», «Non volere toccarmi». Dunque, non si tocca. E “non volere toccarmi” non è una prescrizione su Gesù, perché in qualche modo non sia giusto toccarlo, ma su Maria, sul suo desiderio: lei cercava un corpo e le viene detto: Non è questo che devi cercare, non è un cadavere che devi trovare. Non voler toccare. Cerca un’altra cosa. Ma Gesù, poco più oltre nello stesso capitolo, si farà toccare da Tommaso: “Stendi la tua mano, e mettila nel mio costato” (Gv 20,27). Qui la questione è il desiderio di Maria, quello che lei cercava, cioè il cadavere di un morto. Gesù le sta dicendo: Sono vivo, non mi toccare, sono un’altra cosa e non quello che cercavi tu. Sempre per mettere un po’ in difficoltà il nostro giudizio sugli esiti, sul riconoscere i segni della risurrezione.
Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: *Ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto. (v. 18)
Finalmente il verbo “vedere” assume un complemento oggetto: “Ho visto il Signore”; si capisce cosa si vede. A conclusione di questa riflessione, due questioni. La prima: che cosa ci aspettiamo dalla nostra fede? Per dire che la fede ha funzionato nella nostra esistenza, che non siamo stati ingannati da Dio, qual è l’esito che ci attendiamo? Perché questo è il caso serio. Di per sé si chiama “definizione teologica della salvezza”, cioè: che cosa pensiamo debba succedere per sapere che il Signore ha mantenuto le sue promesse nella nostra vita? Di solito facciamo la domanda opposta: che cosa devo fare perché Dio mantenga le sue promesse? Invece mi pare che questo testo ci inviti a chiederci quale sia l’esito che attendiamo, quale la risurrezione che aspettiamo, confrontandola con l’offerta di Dio. Proviamo a vedere se quello che ci aspettiamo è ciò che Dio offre o no.
La seconda questione: come si riconoscono i segni di risurrezione intorno a noi? Come si riconosce la croce lo sappiamo: non occorre fare tanto sforzo per trovare una ferita, un dolore o un fratello a cui stare vicini. Ma dove e come si fa a vedere la risurrezione? Si vede o non si vede, c’è o non c’è? Riguarda la fine del mondo? Riguarda la morte? Riguarda la vita? Riguarda che cosa? Da che parte sta?

La Teotokos

 La  Teotokos

Meditazione sulla Madre di Dio

di Padre Mario Metodio Cirigliano


1.   Una donna ebrea dalla fede profonda. Il nome Maria viene dall’ebraico “Myriam” o “maryam”. Fra le possibili etimologie c’è “mara”, “signora”, o “mi-ram”, dalla radice “rym”, attestata in testi ugaritici col significato di “alta, eccelsa, desiderata”. Già nel nome della giovane madre di Gesù si riconosce come ella sia stata l’oggetto dell’attesa dei suoi genitori, desiderata e amata. Quando concepisce il Figlio, Maria è una almah, termine usato da Isaia 7,14 (“la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”), la cui traduzione corretta è “giovane donna”, una donna cioè di poco più di 14 anni. Poiché la nascita di Gesù va fissata intorno al 6 a.C. - almeno due anni prima della morte di Erode, che aveva ordinato la strage dei bambini dai due anni in giù - la nascita di Maria può essere collocata fra il 22 e il 20 a.C. Al tempo degli eventi pasquali del Figlio Myriam aveva dunque fra i cinquanta e i cinquantacinque anni. La versione greca della Bibbia, detta dei Settanta e considerata ispirata dall’ebraismo della diaspora, tradusse l’ebraico almah con la parola greca parthénos, cioè “vergine”, aprendo così la strada alla lettura del testo come profezia della nascita verginale di Gesù (cf. Mt 1,23). Maria è una giovane ebrea credente, familiare al linguaggio delle Scritture, come dimostra il fatto che nel racconto dell’annunciazione le risultano immediatamente comprensibili i riferimenti ai Profeti (Isaia 7,14 in Luca 1,31, o a Sofonia 3,14-17 e Zaccaria 9,9 in 1,28: “chàire, esulta, piena di grazia…”),. È una credente che osserva scrupolosamente la Torah, mostra ad esempio nella sua andata al Tempio per celebrare la purificazione rituale dopo il parto (cf. Luca 2,22-24). La spiritualità di Myriam è quella dello “Shemà”, cioè dell’“ascolto” obbediente del Dio unico, perché parli quando e come vorrà alla sua serva e compia in Lei le sue opere: in questo Maria si colloca al vertice della spiritualità biblica dell’attesa e dell’accoglienza della Parola divina. Lo si coglie nella scena dell’adorazione dei pastori, dove Maria è la protagonista, silenziosa e raccolta, che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Luca 2,19). L’espressione richiama un atteggiamento caro alla tradizione ebraica: il ricordare associando fra loro gli eventi, in cui si manifestano i misteriosi disegni dell’Altissimo. In ciò consiste propriamente lo studio della Torah e il greco “symballousa” - “meditando”, ben richiama quest’atteggiamento di confronto, intelligenza, giudizio, decisione. Si tratta di un’attitudine costante in Maria (cf. 2,51), che proprio così si lascia condurre docilmente dall’Altissimo. Maria è la donna credente e riflessiva, che si abbandona all’Eterno con serietà pensosa. È questo peraltro il modello di femminilità nella tradizione ebraica: la donna sa tenersi in prossimità dell’invisibile Voce e questo la colma della gioia di sapersi amata dall’Altissimo. Maria è la donna della gioia, che testimonia cantando il Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva”(Luca 2,46-48). Il suo atteggiamento interiore è ben espresso da questo canto, che richiama i Salmi degli “anawim”, i “poveri” che confidano solamente in Dio, e il cantico di Anna (1 Samuele 2,1-10), che si apre con docilità alla sorpresa di Dio, ma non di meno rivela la profonda fede di questa donna ebrea, capace di consegnarsi totalmente all’Eterno. Alla scuola di Maria impariamo il primato della dimensione contemplativa della vita, quel continuo accogliere l’iniziativa del Signore, che consiste nel lasciarci amare e condurre docilmente da Lui. Ci chiediamo: è veramente Dio il signore della mia vita, come lo fu per Maria? Sono docile alla Sua azione, alla Sua Parola, al Suo silenzio? Mi lascio guidare da Lui, meditando quanto mi dà di vivere alla luce delle Scritture, per discernere la Sua volontà e realizzare con Lui il Suo disegno d’amore per me e per quanti mi affida anche di fronte a momenti difficili, come ad esempio quelli che la nostra società sta vivendo?
2. Lo stile di vita di Maria. La scena della visitazione mostra quali siano le caratteristiche dell’agire della giovane Myriam: ella è capace di un amore attento, concreto, gioioso e tenero. Il suo amore è attento: Maria non ha bisogno di richieste per capire il bisogno della cugina Elisabetta, di età matura e in attesa di un figlio. Intuisce la necessità e le corre in aiuto: il suo sguardo, nutrito d’amore, ha capito il da farsi al di là di ogni comunicazione verbale. “Ubi amor, ibi oculus”: dove c’è l’amore, l’occhio vede ciò che uno sguardo privo d’amore non vedrà mai. All’attenzione Maria unisce la concretezza: non indulge a sogni di bene, agisce. L’espressione “in fretta” (v. 39) dice la sollecitudine e la premura con cui concretizza la decisione di andare in aiuto alla Madre di Giovanni. Commenta Sant’Ambrogio: “La grazia dello Spirito Santo non tollera indugi” (Expositio in Evangelium secundum Lucam, 2,19)! L’agire di Maria, poi, è pervaso di gioia: non vive i suoi atti come il compimento di un dovere o in ottemperanza a un obbligo impostole dalle circostanze. In lei tutto è gratuità, bene diffusivo di sé, generosità vissuta senza calcolo o forzature. Gioia è sentirsi amati così profondamente da avvertire l’incontenibile bisogno di amare, per corrispondere all’amore ricevuto al di là di ogni misura con l’amore donato senza condizioni. Proprio così tutto in Maria si mostra nel segno della tenerezza, propria dell’amore che non crea distanze, che avvicina, anzi, i lontani, facendoli sentire accolti e li riempie dello stupore e della bellezza di scoprirsi oggetto di puro dono. “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo” (vv. 43s). La tenerezza è dare con gioia suscitando gioia nell’amato: chi non ama con tenerezza, crea dipendenze o mantiene distanze in cui è impossibile far sprigionare la gioia. In tutto questo, Maria è un modello per tutti, specialmente nei rapporti familiari. Ci chiediamo allora: qual è il mio stile di vita? Sono come Maria attento agli altri, all’altro, ai bisogni espressi o inespressi di chi mi sta davanti, di chi Dio mi chiama ad amare e servire? So essere concreto nel mio modo di amare, agendo con la tenerezza che coniuga il rispetto e l’attenzione all’amore che rende liberi e genera la pace del cuore? Cerco di avere attenzione e solidarietà verso chi soffre, ad esempio verso chi sta vivendo le conseguenze dell’attuale crisi specialmente per la mancanza o la precarietà del lavoro?
3. Il rapporto col Figlio. Nella vita di Gesù la Madre ha avuto un ruolo decisivo. Per l’ebraismo è la donna che trasmette l’appartenenza al popolo eletto (è ebreo chi nasce da madre ebrea), generando il proprio figlio alla coscienza dell’alleanza con Dio, anzitutto attraverso la vita familiare. Il contesto domestico è considerato un “piccolo tempio”, nel quale la tavola costituisce “l’altare”: e la donna è la responsabile della liturgia domestica e dell’osservanza delle norme di purità che regolano la vita quotidiana. La tradizione rabbinica sottolinea che la Torah rivelata al Sinai fu data prima alle donne, poiché senza di esse la vita ebraica non sarebbe stata possibile, e invita perciò i mariti ad “ascoltare” le proprie mogli, poiché è per loro merito che le benedizioni raggiungono la famiglia. La famiglia diventa così il nucleo più importante dell’ebraismo, al cui interno decisivo è il ruolo della donna. Secondo i maestri ebrei è compito degli uomini insegnare il contenuto della rivelazione, la Torà e il Talmud, mentre quello della donna è di trasmettere l’esperienza della rivelazione, il senso del mistero, senza il quale i contenuti non avrebbero valore e il loro studio sarebbe puro esercizio intellettuale. Perciò è sempre la donna ad accendere e benedire le luci del sabato, simbolo del dono della vita. Maria ha assolto pienamente questo ruolo, come mostrano le due visite al tempio per la circoncisione di Gesù e per il suo “bar mitzvah”, la festa dei dodici anni, ovvero della maggiore età per un bambino ebreo. In esse Maria mostra tutto il suo rispetto per la tradizione dei Padri: è la madre ebrea che educa il figlio, che le è sottomesso (cf. 2,51), secondo la Legge del Signore. Madre attenta e tenera, vive le attese, i silenzi, le gioie e le prove che ogni mamma è chiamata ad attraversare: è significativo che non sempre comprenda tutto di lui (così in Luca 2,50, dopo il ritrovamento di Gesù e la sua risposta). Avanza, però, fidandosi di Dio, amando e proteggendo a modo suo quel Figlio, così piccolo e così grande, con una mescolanza di prossimità e di dolorosi distacchi, che la rendono modello di maternità: i figli vengono generati nel dolore e nell’amore per tutta la vita! Così Maria è esempio di madre, capace di un’azione educativa fatta di condivisione del tesoro del cuore, di pazienza e di fermezza, di progressività e di fiducia nell’Altissimo. Ci chiediamo allora: nella nostra responsabilità di testimoni e generatori della vita che viene dall’alto ci sforziamo di essere come Maria nel suo rapporto con Gesù, vicini con tenerezza a chi ci è affidato e rispettosi della sua libertà e del suo mistero? Siamo pronti ad affidare tutto a Dio senza sottrarci ad alcuna delle nostre responsabilità? Siamo capaci di ascolto verso tutti, senza venir meno al dovere di testimoniare la verità che solo libera e salva?
4. Il servizio di Maria e il nostro. Maria accompagna Gesù nella vita pubblica, a partire dall’episodio, che può considerarsi il compendio di tutto ciò che verrà, le nozze di Cana, dove Gesù si manifesta come lo Sposo divino, che conclude con il popolo l’alleanza nuova e definitiva. Si è alla svolta decisiva della storia della salvezza e la Madre ha in essa un ruolo, che l’Evangelista ha voluto evidenziare. È lei a notare il bisogno cui è necessario provvedere: “Non hanno più vino” (Giovanni 2,3). Si manifesta qui ancora una volta l’attenzione di Maria. Nel vino, poi, nominato cinque volte nel racconto (vv. 3.9.10), è possibile riconoscere un segno dei tempi messianici (cf. ad esempio Amos 9,13: “dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù per le colline”), che caratterizzerà il banchetto escatologico (cf. Isaia 25,6) e sarà offerto con gratuità. Il vino nuovo allieterà il giorno delle nozze eterne fra il Signore e il suo popolo (cf. Osea 2,21-24). In questa luce, il banchetto nuziale di Cana appare come l’ora dell’intervento definitivo di Dio, che viene a compiere in maniera sovrabbondante l’attesa e trasforma l’acqua della purificazione dei Giudei (acqua della preparazione e del desiderio: cf. v. 6) nel vino nuovo del Regno. La risposta apparentemente tagliente di Gesù: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” (v. 4) indica la novità sorprendente di questo passaggio che si compirà a pieno nella Pasqua. Quanto la Madre dice ai servi è di grande importanza: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (v. 5). Come il popolo dell’antico patto risponde alla rivelazione al Sinai assentendo nella fede - “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo” (Esodo 19,8; 24,3.7) -, così Maria manifesta la sua fiducia incondizionata nel Figlio, che ha evocato il mistero della sua “ora”. L’invito, poi, che rivolge ai “servi” mostra il ruolo di modello e madre nella fede che avrà nella comunità dell’alleanza: in Maria l’antico patto passa nel nuovo, Israele nella Chiesa, la Legge nel Vangelo. Nella Chiesa nata dalla Pasqua di Gesù, la Vergine Madre è colei che presenta al Figlio i bisogni dell’attesa e conduce alla fede in Lui, condizione necessaria perché il vino nuovo riempia le giare dell’antico patto. Il servizio di Maria è di orientarci a Gesù e di portarci a compiere la Sua volontà. Siamo pronti a rispondere all’invito della Madre, per metterci a nostra volta al servizio degli altri nella maniera più vera e feconda, che è quella di introdurli alla fede con la fede vissuta e testimoniata? Sappiamo dire con le labbra e con la vita le parole che indicano a ciascuno la strada della libertà e della realizzazione più piena di sé, “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”?
5. Maria sotto la Croce. Quanto a Cana è prefigurato, viene a compiersi nell’ora della Croce. Gesù morente si rivolge a sua Madre e al discepolo che egli ama (Giovanni 19,25-27): la chiama con l’appellativo “donna” (v. 26), applicato dalla Bibbia a Gerusalemme e al popolo eletto, quasi a indicare in Maria il popolo eletto della prima alleanza e il popolo radunato dal suo sacrificio pasquale. Accanto alla Madre c’è il discepolo amato (cf. v. 26), simbolo di ogni altro discepolo. A partire dall’“ora” della croce (cf. v. 27) il discepolo accoglie la Madre “fra quanto gli è proprio” (“eis tà ídia”: v. 27): non si tratta soltanto dell’accoglienza “in casa sua”. L’espressione va riferita al mondo vitale, all’ambiente esistenziale (così, ad esempio, in 1,11, detto di Israele in riferimento al Verbo, o in 10,4, detto dei discepoli in riferimento a Gesù): essa sta a dire che la Madre entra nel più profondo della vita del discepolo, ne fa ormai parte come bene irrinunciabile. Il rapporto che il Crocifisso stabilisce fra la Madre e il discepolo appare allora intensissimo: in quanto la “donna” è figura dell’antico Israele e il discepolo della Chiesa credente, il messaggio è che l’antico Israele entra a far parte in modo vitale del nuovo. La Chiesa riconosce in Israele l’antica madre che porta al centro del suo cuore. In quanto la “donna” rappresenta il popolo dell’era messianica e il discepolo è il tipo di ogni singolo credente, la loro reciproca appartenenza sta a dire la reciproca appartenenza fra la Chiesa - madre e i figli della Chiesa: al discepolo la Chiesa sta a cuore come madre amata, bene prezioso affidatogli dal Redentore crocifisso. Infine, in quanto la madre è la singola donna concreta, la madre di Gesù, il testo sembra evidenziare un rapporto privilegiato fra lei e ogni singolo credente, oltre che fra lei e l’intera famiglia dei figli di Dio: Maria fa parte della Chiesa e della vita di fede del discepolo come bene prezioso, valore vitale. Insieme, in lei la Chiesa e i singoli credenti potranno riconoscere la Madre, a loro affidata e a cui sono affidati. In questa luce, Giovanni 19,25-27 testimonia il significato che la Chiesa sin dalle origini attribuisce alla Madre del Signore per la sua vita presente e futura, specialmente nello stare sotto la Croce del Messia, lasciandosi sempre di nuovo generare dal “sangue” e dall’“acqua” scaturiti dal suo costato lacerato. Mi relaziono così a Maria? Riconosco in Lei la Madre cui Gesù mi ha affidato e che mi aiuta a riconoscere Lui nei fratelli e gli altri come fratelli in Lui? Lascio che l’amore a Maria nutra in me l’amore alla Chiesa e alla fede dei Patriarchi e dei Profeti?
6. Perseverante nella notte della fede. Alla morte del Figlio,
abbandonato sulla Croce, segue un tempo oscuro, il sabato santo della prostrazione e dell’attesa, in cui la tradizione cristiana ha riconosciuto un ruolo unico a Maria, la Vergine Madre di Gesù. Mentre il Figlio giace morto nel sepolcro, la Madre custodisce la fede, abbandonata nelle mani del Dio fedele che compirà le Sue promesse. È perciò antico uso liturgico consacrare il sabato alla Vergine, quale memoria di quel “grande sabato”, nel quale in Lei si raccolse tutta la fede della Chiesa e dell’umanità, nell’attesa trepida della risurrezione. Il sabato santo di Maria parla in modo eloquente a noi, pellegrini nel grande sabato del tempo, che sfocerà nella domenica senza tramonto, quando Dio sarà tutto in tutti e il mondo intero sarà la patria di Dio. Nel tempo del silenzio di Dio, nello stupore dolente davanti al Dio crocifisso e abbandonato, viene allora da chiederci sull’esempio e con l’intercessione di Maria: credo veramente in Dio? Mi pongo in ascolto docile e perseverante del Suo progetto d’amore su di me? vivo la gioia del sapermi amato con Cristo e in Lui dal Padre, anche nel tempo della prova e del silenzio di Dio? irradio questa gioia? cerco di piacere sempre e solo a Dio nell’eloquenza dei gesti, senza inseguire l’immagine o crearmi maschere di difesa o di evasione? Possa la Vergine Madre aiutarci a rispondere con verità a questi interrogativi e a vivere, come lei l’ha vissuto, il primato dell’amore e della fede nel lungo sabato del tempo, di cui il sabato santo è figura e profezia, finché venga la domenica senza tramonto, nella quale Maria è già entrata, anticipando il destino di quanti avranno creduto nel suo Figlio, amando e sperando con l’aiuto della Sua grazia.
7. Aperti con Maria alle sorprese del Signore. Chiediamo insieme a Maria di intercedere per noi e di ottenerci una fede irradiante, una speranza viva e una carità operosa: Prega per noi, Maria, Figlia di Sion, donna dell’ottavo giorno, in cui l’Eterno compì le meraviglie della nostra salvezza! In Te, Vergine accogliente, rifulse l’Amore umile che aveva reso possibile il primo mattino degli esseri. In Te, Vergine dell’ascolto, la fede di Abramo toccò il vertice puro fra quanti credettero nell’impossibile possibilità di Dio. Per il Tuo sì ospitale la promessa divina si realizzò in Gesù, l’atteso delle genti: la notte del Tuo grembo verginale fece spazio alla Luce della vita. La notte del Tuo amore materno accompagnò i Suoi passi fino all’estremo abbandono. La notte della Tua fede umile condivise l’ora delle tenebre, quando la spada ti trapassò l’anima come i chiodi il corpo del Tuo Figlio. Il Tuo cuore trafitto custodì nella fede l’attesa innamorata dell’aurora. Tu sei la Madre dell’amore abbandonato, la Sposa dell’amore vittorioso, la Regina della notte del Messia! In Te, al compimento di quella notte, si offrì la luce dell’aurora: Tu primizia degli amati nel cuore dell’Amato, con Lui nascosta in Dio nella Tua carne di donna, meraviglioso pegno dell’umanità nuova, riconciliata per sempre nell’amore. Prega per noi, Maria, Vergine e Madre, Sposa e Regina, e ottienici dal Figlio Tuo e Redentore nostro una fede sempre più viva e innamorata, una speranza ardente, una carità umile e operosa, capaci di attrarre a Lui ogni cuore aperto alla verità che libera e salva. Amen. Alleluia.