venerdì 16 gennaio 2015

IL TESTAMENTO SPIRITUALE DEL CARD MARTINI

Il testamento spirituale del cardinal Martini.
Da vescovo ha spesso chiesto a Dio: «Perché non ci dai idee migliori? Perché non ci
rendi più forti nell'amore e più coraggiosi nell'affrontare i problemi attuali? Perché
abbiamo così pochi preti?». Oggi, entrato in uno stato d'animo crepuscolare, confida
di domandare a Dio di non essere lasciato solo. Nell'ultima stagione della sua vita
Carlo Maria Martini si confessa ad un confratello austriaco e ne nascono i "Colloqui
notturni a Gerusalemme", appena editi da Herder in Germania, che rappresentano il
suo testamento spirituale. Confessa di essere stato anche in conflitto con Dio, elogia
Martin Lutero, esorta la Chiesa al coraggio di riformarsi, a non allontanarsi dal
Concilio e a non temere di confrontarsi con i giovani. Un vescovo, rammenta, deve
saper anche osare, come quando lui andò in carcere a parlare con militanti delle
Brigate Rosse «e li ascoltai e pregai per loro e battezzai pure una coppia di gemelli
di genitori terroristi, nata durante un processo».
Con padre Georg Sporschill, gesuita anche lui, l'ex arcivescovo di Milano è di una
sincerità totale. Sì, ammette, «ho avuto delle difficoltà con Dio». Non riusciva a
capire perché avesse fatto patire suo Figlio in croce. «Persino da vescovo qualche
volta non potevo guardare un crocifisso perché l'interrogativo mi tormentava». E
neanche la morte riusciva ad accettare. Dio non avrebbe potuto risparmiarla agli
uomini dopo quella di Cristo?
Poi ha capito. «Senza la morte non potremmo darci totalmente a Dio. Ci terremmo
aperte delle uscite di sicurezza». E invece no.
Bisogna affidare la propria speranza a Dio e credergli. «Io spero di poter
pronunciare nella morte questo Si a Dio».
Però, se potesse parlare con Gesù, Carlo Maria Martini gli chiederebbe «se mi ama
nonostante le mie debolezze e i miei errori e se mi viene a prendere nella morte, se
mi accoglierà». I discorsi di Gerusalemme sono come un lungo simposio notturno,
senza bevande, alimentati soltanto dallo scorrere dei ragionamenti, rassicurati dalle
ombre calde di una sera che si prolunga fino all’alba.
C’è stato un tempo – racconta - in cui «ho sognato una Chiesa nella povertà e
nell'umiltà, che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che
IL PENSIERO COMPIUTO DEL CARD. MARTINI 2
concede spazio alle gente che pensa più in là. Una Chiesa che dà coraggio,
specialmente a chi si sente piccolo o peccatore. Una Chiesa giovane. Oggi non ho
più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa».
Eppure a ottantun anni il cardinale, grande biblista, non rinuncia a suggerire alla
Chiesa di avere coraggio e di osare riforme. È essenziale avere la capacità di andare
incontro al futuro. Il celibato, spiega, deve essere una vera vocazione. Forse non tutti
hanno il carisma. Affidare ad un parroco sempre più parrocchie o importare preti
dall'estero non è una soluzione. «La Chiesa dovrà farsi venire qualche idea. La
possibilità di ordinare viri probati (cioè uomini sposati di provata fede, ndr) va
discussa». Persino il sacerdozio femminile non lo spaventa.
Ricorda che il Nuovo Testamento conosce le diaconesse. Ammette che il mondo
ortodosso è contrario. Ma racconta anche di un suo incontro con il primate anglicano
Carey, al tempo in cui la Chiesa anglicana era in tensione per le prime ordinazioni di
donne-sacerdote (avversate dal Vaticano). «Gli dissi per fargli coraggio che questa
audacia poteva aiutare anche noi a valorizzare di più le donne e a capire come
andare avanti».
Sul sesso il cardinale invita ì giovani a non sprecare rapporti ed emozioni,
imparando a conservare il meglio per l'unione matrimoniale, ma non ha difficoltà a
rompere tabù, cristallizzatisi con Paolo VI, Wojtyla e Ratzinger. «Purtroppo
l'enciclica Humanae Vitae ha provocato anche sviluppi negativi. Paolo VI sottrasse
consapevolmente il tema ai padri conciliari». Volle assumersi personalmente la
responsabilità di decidere sugli anticoncezionali. «Questa solitudine decisionale a
lungo termine non è stata una premessa positiva per trattare i temi della sessualità e
della famiglia». A quarant'anni dall'enciclica, dice Martini, si potrebbe dare un
«nuovo sguardo» alla materia. Perché la Bibbia, ricorda, è molto sobria nelle
questioni sessuali. Assai netta è soltanto nel condannare chi irrompe, distruggendo,
in un matrimonio altrui. Chi dirige la Chiesa, sottolinea, oggi può «indicare una via
migliore dell’Humanae Vitae». Il Papa potrebbe scrivere una nuova enciclica. E
l'omosessualità? Il porporato ricorda le dure parole della Bibbia, ma rammenta anche
le pratiche sessuali degradanti dell'antichità. Poi aggiunge delicatamente: «Tra i miei
conoscenti ci sono coppie omosessuali, uomini molto stimati e sociali. Non mi è
stato mai domandato né mi sarebbe venuta in mente di condannarli». Troppe volte,
soggiunge, la Chiesa si è mostrata insensibile, specie verso i giovani in questa
condizione.
C'è un filo rosso che lega i suoi ragionamenti nella quiete di Gerusalemme. I
credenti non hanno bisogno di chi instilli loro una cattiva coscienza, hanno bisogno
di essere aiutati ad avere una «coscienza sensibile». E vanno stimolati
continuamente a pensare, a riflettere. «Dio non è cattolico», era solita esclamare
Madre Teresa. «Non puoi rendere cattolico Dio», scandisce Martini. Certamente gli
uomini hanno bisogno di regole e confini, ma Dio è al di là delle frontiere che
vengono erette. «Ci servono nella vita, ma non dobbiamo confonderle con Dio, il cui
cuore è sempre più largo». Dio non si lascia addomesticare. Se questa è la
prospettiva ci si può rivolgere con spirito più aperto al non credente o al seguace di
un'altra religione. Con chi non crede ci si può confrontare sui fondamenti etici, che
lo animano. Ed è bello camminare insieme a chi ha una fede diversa.
«Lasciati invitare ad una preghiera con lui - suggerisce con mitezza Martini - portalo
una volta ad un tuo rito. Ciò non ti allontanerà dal cristianesimo, approfondirà al
contrario il tuo essere cristiano. Non avere paura dell'estraneo». 3
Per il cardinale la grande sfida geopolitica contemporanea è lo scontro delle civiltà.
Conoscono davvero i cristiani il pensiero e i pensieri dei musulmani - si chiede
Martini - e come fare per capirsi? Tre sono le indicazioni. Abbattere i pregiudizi e
l'immagine del nemico, perché i terroristi non possono davvero fondarsi sul Corano.
Studiare le differenze. Infine avvicinarsi nella pratica della giustizia, perché l'Islam
in ultima istanza è una religione figlia del cristianesimo così come il cristianesimo è
figliato dal giudaismo.
La regola aurea del cristiano - Martini lo ribadisce in questo suo scritto che
assomiglia tanto ad un testamento spirituale - è «Ama il tuo prossimo come te
stesso». Anzi, spiega con la precisione dello studioso della Bibbia, Gesù dice di più:
«Ama il tuo prossimo perché è come te». Da lì sorge l'imperativo a praticare
giustizia. E’ terribile, insiste Martini, invocare magari Dio nella costituzione
europea, e poi non essere coerenti nella giustizia. E qui il cardinale di Santa Romana
Chiesa tira fuori il Corano e legge la splendida sura seconda. Non si è giusti, se ci si
inchina per pregare a oriente o a occidente. Giusto è colui che crede in Allah e
nell'Ultimo Giudizio. Giusto è colui che «pieno di amore dona i suoi averi ai parenti,
agli orfani, ai poveri e ai pellegrini». Chi fa l'elemosina e riscatta gli incarcerati.
«Costui è giusto e veramente timorato di Dio».
Poi torna a riflettere sull'Aldilà. C'è l'Inferno? Sì. «Eppure ho la speranza che Dio
alla fine salvi tutti». E se esistono persone come un Hitler o un assassino che abusa
di bambini, allora forse l'immagine del Purgatorio è un segno per dire: «Anche se tu
hai prodotto tanto inferno (sulla terra) forse dopo la morte esiste ancora un luogo
dove puoi essere guarito».
Non finirebbero mai i discorsi notturni di Gerusalemme. Lo si capisce
dall'andamento quieto delle domande e delle risposte. Come onde che si susseguono.
Martini nel frattempo è rientrato in Lombardia, fiaccato dal Parkinson. A chi lo
ascolta, lascia questo segnale: «Possiamo anche lottare con Dio come Giacobbe,
dubitare e dibatterci come Giobbe, rattristarci come Gesù e le sue amiche Marta e
Maria. Anche questi sono sentieri che portano a Dio».






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martedì 6 gennaio 2015

Cos’è L’uomo, perché te ne curi? Dal salmo 8

Quando tutto sembra andare alla deriva, quando, lo stesso annuncio della Buona Novella, sembra perdere di senso, lo stesso Natale ,come  incarnazione e l’Epifania come manifestazione, del Logos, rimangono liturgie incensate dentro  a chiese di pietra, da questo salmo ,il cui inno di lode ,colloca l’uomo , al centro della creazione,  è un invito anche per  noi, a celebrare la speranza, che viene da Dio.

Meditazione sul salmo 8 d’esegesi biblica.

Un inno alla grandezza del Signore 
La lode della persona umana viene posta in mezzo a un mare di guai; c’è un’isoletta con l’uomo glorioso e intorno… una burrasca oceanica. Notiamo in partenza che il versetto del salmo «Di gloria e di onore lo hai coronato» non dimentica tutto il male, il disordine, la sofferenza, l’ingiustizia che circonda questa isola felice. Se partiamo da questo presupposto possiamo accorgerci che il Salmo 8 non è il sogno idilliaco di uno che vive fuori del mondo, che vede tutto roseo perché non ha esperienza di vita; anzi esprime proprio la consapevolezza che, nonostante tutte le situazioni negative, al centro c’è la dignità della persona umana. Questo è il primo punto da cui partiamo. Per aiutarci a capire che questo Salmo è un centro, il testo comincia e finisce con la stessa frase: è un indizio letterario importante O Signore, Signore Dio nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra! Così inizia e nello stesso identico modo finisce: 10 O Signore, Signore Dio nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra! È una esclamazione che indica lode, apprezzamento, stima: “Quanto è meraviglioso il tuo nome”. Sapete che nell’originale ebraico dietro al termine “Signore” c’è il nome proprio di Dio – impronunciabile – scritto con le quattro lettere maiuscole ( YHWH ) e per questo chiamato tetragramma sacro. Nella tradizione ebraica questa formula si leggeva come Adonai, tradotta con K.rios in greco, Dominus in latino, Signore in italiano; è il nome proprio di Dio ed è il termine che è entrato nel nostro linguaggio dialettale, ad esempio, per indicar Dio. Non abbiamo infatti nei nostri dialetti il termine Dio, ma abbiamo solo “il Signore”. Il Signore non è un termine generico come sembra a noi in italiano, ma è il nome proprio di Dio che indica la sua persona in quanto tale. Ecco perché è ripetuto due volte: “O Signore, Signore nostro”, perché nel primo caso è il nome proprio, nel secondo è il titolo che lo lega a noi. Nel primo caso è il vocativo del nome personale ed è come se noi ci rivolgessimo a una persona chiamandola per nome e poi sottolineando che è il nostro Signore, cioè strettamente legato con noi: “O Adonai, Adonai Elohenu”. Non un Signore qualsiasi, ma “nostro” Signore.
“Il nome” – nel linguaggio biblico – indica la persona in quanto conosciuta, la persona con cui si è in relazione. Quindi il “nome” è molto di più del semplice titolo denominativo, indica infatti la persona in quanto tale. Dire: “il tuo nome è mirabile” significa che la tua persona, che io conosco, è ammirabile, meravigliosa. L’inizio e la fine del salmo contengono quindi una esclamazione di stupore ammirato con cui la persona dice a Dio – chiamandolo per nome e sottolineando la relazione di unione – “Che persona meravigliosa sei!”. Come faccio a capire che sei una persona meravigliosa? Me ne accorgo da tutta la terra! Mi accorgo del riflesso della tua persona in tutto ciò che esiste; contemplo nel creato il riflesso della tua meraviglia. E allora, proprio perché riconosco questa grandezza della persona di Dio, vedo nella persona umana il massimo riflesso di tale grandezza.
Dai bambini impariamo a sostenere Dio.
con la bocca di bambini e di lattanti: hai posto una difesa contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli. È una immagine interessante, ma non chiarissima. Si dice che il Signore difende il suo nome con la bocca di bambini e di lattanti. Quasi a dire che difendere la grandezza di Dio è un lavoro da bambini, cioè facilissimo: anche un bambino riesce a spiegarla. Forse però il significato potrebbe essere più complesso, come dire: proprio attraverso coloro che non sanno ancora parlare viene la più valida testimonianza della grandezza di Dio. In genere il lattante non è ancora in grado di parlare, perciò il bambino piccolo viene detto infante, perché non parla. Bene: proprio lui è capace di presentare la grandezza di Dio. Piccolo, debole, meraviglioso bambino, è lui stesso un discorso su Dio, più eloquente di un grande trattato filosofico o teologico. La contemplazione delle manine del bambino, la meraviglia delle sue emozioni, di quando comincia a riconoscere la madre con il sorriso, è un discorso di Dio. È quindi la meraviglia suscitata dalla perfezione di una creatura appena nata a dire quanto sia mirabile il nome di nostro Signore che – in quanto creatore – imprime alla persona umana una mirabile somiglianza con sé. Se nell’adulto diamo questa realtà per scontata, nel bambino suscita meraviglia; è proprio con la bocca di un bambino infante che il Signore riduce al silenzio nemici e ribelli.
Dalla piccolezza all’importanza dell’uomo 
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? In che contesto della giornata è ambientato il salmo? Chiaramente di notte, perché il poeta alza gli occhi verso i cieli e vede la luna e le stelle. Non dice che vede anche il sole, quindi dobbiamo riconoscerlo come un particolare importante. È un salmo notturno, una preghiera della notte, il discorso di un pastore errante dell’Asia che esce dalla tenda. Immaginatevi il vecchio Abramo che aspetta il figlio promesso da Dio, ma il figlio non arriva. Mentre Sara russa beatamente nella tenda, lui non riesce ad addormentarsi, esce e si mette a contare le stelle. Ha contato già tutte le pecore, ma non è servito; il Signore allora lo invita contare le stelle e il povero vecchio Abramo – con il magone per la mancanza di discendenza – sotto quella meraviglia di cielo stellato sembra dire al Signore: “Questa è la tua grandezza e allora… che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?”.
La formula è interrogativa e c’è una finezza intenzionale: “Ma te ne ricordi davvero? Signore, ti ricordi che ci sono anch’io? Mi sembra strano. Come fai a ricordartene con tutte le stelle che hai da accendere? Guarda quanto lavoro hai fatto stanotte per creare un cielo così bello; è possibile che ti ricordi anche di me?”. Noi che abbiamo la possibilità di vedere la terra dallo spazio – almeno dalle fotografie che gli altri hanno fatto – ci rendiamo conto molto di più degli antichi di quanto siamo piccoli e sperduti nell’universo. Eppure gli antichi saggi erano in grado di percepire questa infinita piccolezza della persona umana rispetto alla grandezza del cosmo. Esprime così la consapevolezza del limite e diviene preghiera della persona che celebra il proprio limite. Non è l’io arrogante, prepotente padrone di tutto, ma carico della consapevolezza della propria enorme povertà, della propria limitatezza. Io sono un granellino di polvere sperduto nel deserto, eppure sono convinto che tu ti ricordi di me. “Ma te ne ricordi davvero?”. Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, La precedente traduzione CEI rendeva: «l’hai fatto poco meno degli angeli». Il testo ebraico adopera infatti il termine Elohim che indica propriamente il nome di Dio, ma è il nome comune di Dio. YHWH invece è il nome proprio. Uno indica la persona in quanto tale, l’altro indica il genere di appartenenza. Elohim è usato anche per gli dei stranieri e, in un’epoca arcaica, Israele non aveva l’idea filosofica-teologica del monoteismo, adorava un Dio solo, senza respingere in modo sistematico l’esistenza di altre divinità. Invece i LXX – cioè gli ebrei traduttori della Bibbia in greco nel II sec a.C. – hanno reso l’espressione originale ebraica Elohim con “angeli”, perché hanno intuito addirittura una possibile allusione politeista – lo hai fatto poco meno degli elohim (in ebraico elohim è un termine plurale) – e allora hanno pensato ad un riferimento alle varie divinità. Ormai, però – nel II sec. a. C. – i giudei avevano maturato l’idea rigidamente monoteista e non hanno perciò osato tradurre con un termine che indicasse altre divinità. Quelli che potevano essere considerati dèi erano infatti semplicemente degli angeli, cioè delle figure soprannaturali, ma inferiori a Dio e dipendenti da Dio. Ecco allora il motivo per cui in greco la LXX tradusse: «l’hai fatto poco meno degli angeli». Così ha mantenuto la Volgata, così aveva tradotto anche il testo CEI del 1971. Nella nuova traduzione si è pensato di scavalcare la tradizione plurisecolare e di ritornare al senso originale dell’ebraico, anche perché nel nostro linguaggio una affermazione del genere: “lo hai fatto poco meno di un dio” non fa problema. L’uomo è quasi un dio, è stato fatto però poco meno. di gloria e di onore lo hai coronato. Questo versetto testimonia a pieno la grandezza della creatura umana e lascia intravedere la destinazione gloriosa che lo attende. Vedremo che il riferimento preciso è a Cristo, ma Cristo, in quanto uomo, riflette la condizione di tutti gli uomini che si affidano a lui. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. Un bell’elenco di animali. Dove sta la dignità dell’uomo? Nel fatto di avere potere sulle opere delle mani di Dio, cioè di mettersi sotto i piedi greggi, armenti, bestie della campagna, uccelli del cielo e pesci del mare? Ma ve li siete mai messi sotto i piedi gli uccelli del cielo e i pesci del mare? E se voi doveste presentare la dignità della persona umana, usereste questo linguaggio? Per dire che l’uomo è una grande creatura, direste che domina sugli animali, dilungandovi nel presentare i vari generi di animali? No!
Noi diremmo dell’altro; questo linguaggio non appartiene al nostro modo di parlare. Ma nella prima pagina della Genesi, nel grande poema sacerdotale della creazione – laddove si parla dell’uomo creato a immagine di Dio – quando Dio dà la benedizione all’uomo, che cosa gli dice? «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Genesi 1,28).
L’uomo, pastore della propria animalità 
Siamo di nuovo da capo. Se quel quadro iniziale è l’emblema del personaggio vertice, per definire l’umanità la si caratterizza come chi domina gli animali? Ci accorgiamo che ci deve essere qualcos’altro? Una lettura letterale è estremamente povera. Vuol dire che il nostro teologo ha messo come caratteristica fondamentale dell’uomo il fatto di dominare gli animali? Questo significa essere uomo, questa è la sua grandezza? State dicendo mentalmente di no, ma nello stesso tempo vi state domandando: “Ma allora che cosa significa?”. Possiamo quindi affermare che: L’uomo diventa umano, quando sa essere pastore della propria animalità. Ecco il significato di quell’elenco di animali. C’è una animalità anche nell’uomo che è posto proprio poco sotto Dio, ma sopra gli animali: l’immagine della persona in relazione con Dio vuole indicare, in questo quadro poetico e teologico, la tensione dell’uomo che domina la propria animalità per tendere alla divinità. L’imperativo di Dio: “Siate fecondi” non significa semplicemente “fate figli”, ma piuttosto crescete, nel senso di maturare e in questa dinamica umana l’aiuto di Dio è indispensabile. È per questo che, sempre nella creazione, Dio dice “facciamo l’uomo” (Gen 1,26). Un plurale proprio per esprimere che solo assieme, nella buona relazione dell’uomo con Dio – quel rapporto che Paolo chiama “giustizia” – l’uomo viene “fatto”, “costruito”, “realizzato” nella pienezza della sua umanità. «Crescete» è quindi un verbo molto più profondo, non significa aumentate di statura e neanche unicamente di numero. Significa entrambe le cose; lo si dice a un bambino piccolo, augurandogli di diventare grande. Ma dove sta il significato metaforico nella benedizione che Dio dà all’essere umano all’inizio? È una benedizione di crescita. Questo vale anche quando la statura si ferma e vale anche quando di figli non se ne mettono al mondo più. L’imperativo “crescete”– che è benedizione, non comando – vale per tutti i giorni della nostra vita, in tutte le condizioni. La traduzione dice “siate fecondi” che non è solo una questione riproduttiva, perché mentre questa non è possibile per tutti gli esseri umani (e l’Antico Testamento indica molte situazioni di sterilità), la fecondità, cioè la crescita umana e spirituale è possibile a tutti. Crescete e moltiplicate le relazioni, diventate grandi, capaci di molteplici relazioni. «Riempite la terra», cioè portatela a compimento, date pienezza al mondo, non semplicemente occupate tutti gli spazi liberi, ma rendete piena l’esistenza terrena e soggiogate, cioè mettete sotto il giogo due elementi diversi; è l’immagine dei due elementi animali che vengono uniti per un servizio. «Dominate». la psicologia analitica moderna direbbe: dominate quegli istinti profondi che nuotano nell’abisso del vostro sub-conscio. Ci sono dei pesci profondi su cui voi dovete dominare e ci sono anche degli elementi che volano alto: sono proprio i vostri desideri, come gli uccelli del cielo, le aspirazioni, i grandi ideali, le ambizioni più eccelse. Mettete sotto i piedi, sia i pesci del mare sia gli uccelli del cielo e tutti quegli altri elementi selvatici e domestici che fanno parte della vostra sensibilità. Alcuni sono facilmente addomesticabili, altri sono invece molto più restii a lasciarsi sottomettere. È tutto quello che striscia a fior di pelle: sensazioni, emozioni, reazioni che fanno parte del tuo carattere, del tuo essere.
La dignità dell’uomo sta proprio in questa capacità di dominare, non eliminare, ma controllare, pascere questo gregge immenso che è tutto l’insieme della nostra animalità, del nostro essere, del nostro essere animale. Animale in fondo ha la radice di anima. In greco zóon “animale”, “essere vivente” ha la radice di zoécioè “vita” (lo stesso vale anche in ebraico per il vocabolo chajah). Quindi non si parla tanto di animali come bestie, ma di “viventi”. Perciò l’uomo diventa umano nella sua capacità di pascere la propria animalità, mentre – quando l’animalità predomina – l’uomo è disumano e perde la dignità. Facendo degli elenchi di animali, l’autore suggerisce degli esempi. Prendete i giornali e avete anche oggi tutti gli esempi che volete di atteggiamenti umani e dis-umani. A che cosa sono dovuti? All’emergere di pulsioni, desideri, rabbie, paure, ambizioni e di tutti gli elementi che fanno parte della nostra vita, anche di coloro che hanno vissuto bene, con una grande dignità umana.
La lettura cristologica del salmo 
Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Ma chi è quest’uomo di cui si parla? È l’uomo in genere? La poetica ebraica ha l’abitudine di dire due volte la stessa cosa, con un sistema che si chiama parallelismo. La seconda metà del versetto ripete quindi la prima metà, cambiando parole e il cambio delle parole molte volte è utile per poter capire qualche termine. Nella seconda parte, dunque, il termine uomo è parafrasato con «figlio dell’uomo». Che cosa vuol dire “figlio dell’uomo”? Non è certo una formula banale, semplicemente un sinonimo di uomo! Il termine “figlio dell’uomo” è un termine tecnico di tipo messianico, apocalittico, legato a una figura celeste che viene sulle nubi del cielo. Lo si trova nel Libro di Daniele al capitolo 7. Ed è proprio questa la formula che Gesù adopera più comunemente per parlare di sé. Quando infatti Gesù vuole sottolineare la propria dimensione trascendente si definisce “figlio dell’uomo”. Chi è allora quest’uomo di cui parla il salmo? Non uno qualunque, ma il Figlio dell’uomo, cioè la figura messianica per eccellenza, il modello dell’umanità. Bisogna avere il coraggio di riconoscere che l’antico autore del salmo aveva una tensione in avanti pur senza capire bene ancora verso che cosa; ma nella rilettura cristiana – dopo l’evento storico di Gesù Cristo – noi abbiamo la possibilità di capire il testo meglio di come lo pensava l’autore. Lo comprendiamo meglio noi di chi lo ha scritto, perché gli autori della Bibbia sono due: l’uomo che lo ha messo per iscritto e Dio che lo ha ispirato. Nel testo c’è infatti di più di quel che c’era nella testa dell’autore umano. Il testo biblico è portatore di un significato più grande e l’autore divino vi ha messo una potenzialità di senso che si può capire solo dopo. La tradizione cristiana, infatti, ha letto questo salmo in chiave cristologica e diverse volte questo scritto è citato nel Nuovo Testamento. L’evangelista Matteo al capitolo 21, durante l’ingresso di Gesù in Gerusalemme – quando i bambini hanno cantato “Osanna” e le autorità giudaiche hanno imposto di farli tacere – mette sulle labbra di Gesù queste parole: «Non avete mai letto nel salmo che sono i bambini e i lattanti che procurano la lode a Dio contro nemici e avversari?». Quelli potevano dire: “Che cosa c’entri tu? Nel salmo si parla di Dio”. Gesù usa quel salmo per dire: “Vedete? Adesso i bambini stanno lodando il nome di Dio e chiudono la bocca a nemici e ribelli. Loro hanno capito molto più di voi”. Gesù adopera il salmo e lo applica tranquillamente a sé.
San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, capitolo 15, dice che Dio ha messo ogni cosa sotto i piedi di Gesù. È solo un accenno, ma se noi capiamo bene il salmo, possiamo cogliere il riferimento. «Tutto è posto sotto i suoi piedi». Ma di chi sta parlando? Del Cristo risorto: è il Cristo risorto che domina su tutto! L’intronizzazione gloriosa del Cristo e il suo dominio universale è la realizzazione di questo salmo; vuol dire che Paolo lo leggeva in chiave cristologica. Nella Lettera agli Ebrei abbiamo il testo più esplicito; l’autore di questo scritto è un grande studioso biblico e fa parlare il testo. Ecco come commenta proprio il nostro salmo: Eb 2,5 Non certo a degli angeli Dio ha sottomesso il mondo futuro, del quale parliamo. Anzi, in un passo della Scrittura qualcuno ha dichiarato: Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi? / Di poco l’hai fatto inferiore agli angeli, Cita il testo greco e quindi adopera “angeli”; anche la nuova traduzione deve rendere con “angeli” perché l’autore della Lettera agli Ebrei commentava il discorso sugli angeli e deve presentare Gesù come inferiore agli angeli. di gloria e di onore l’hai coronato / e hai messo ogni cosa sotto i suoi piedi. Avendo sottomesso a lui tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Non c’è ombra di dubbio: il Nuovo Testamento ci dice di leggere il Salmo 8 in chiave cristologica; l’uomo di cui si parla è quel povero cristo di Gesù! Ho usato apposta questa espressione, cioè il Cristo povero, nel senso di pover’uomo, morto presto e male, da giovane e su un patibolo infame. È quel povero cristo l’uomo coronato di gloria e di onore, ed è proprio la sua persona gloriosa che richiama la condizione della sofferenza. Adesso è coronato di gloria e di onore, ma è arrivato lì perché è passato attraverso la sofferenza. Ecco perché ho cominciato parlando del Salmo ottavo circondato dagli altri, perché questo salmo è una luce che viene gettata sulla condizione della sofferenza umana e il Cristo – che è l’uomo coronato di gloria e di onore – realizza proprio quel pover'uomo che ha patito concretamente ingiustizia, oppressione, iniqua condanna, eliminazione. Eppure è lui che adesso domina su tutto. È stato fatto “di poco inferiore agli angeli” nel senso che è sceso, certo, si è abbassato; come uomo è inferiore, ma proprio perché è stato solidale con la sofferenza umana è stato «di gloria e di onore coronato». Adesso lui è l’uomo vero. Nella gloria il Cristo risorto è l’uomo, veramente l’uomo; è la possibilità per l’uomo di diventare Dio. Superando quella animalità che lo rovina, diventa Dio; questa è la dignità di cui sta parlando il testo biblico ed è una dignità in divenire, dove la piena realizzazione si ha grazie ad una cura divina e, attraverso la piena guarigione, conduce alla gloria della risurrezione, di cui Cristo è il primogenito. In Cristo c’è la realizzazione del progetto; nella Theotokos  Maria, c’è l’umanità che ha raggiunto già pienamente la sua dignità; in noi come chiesa c’è l’impegno del mostrare nel mondo che questa dignità è possibile e che è la vocazione di tutti; diventa allora dono e responsabilità, non semplicemente belle parole di contemplazione. In mezzo ai guai di cui parlano gli altri salmi, il Salmo 8 nella notte del mondo – perché quando ci sono le stelle e la luna è buio – esprime la fede e la speranza di questa presenza del Figlio dell’uomo che porta a compimento il progetto divino.

Lui si ricorda di me sempre, tu ricordi, che Lui ti ricorda sempre? Se entriamo in questa reciprocità, di relazione,intima, anche noi nella notte della nostra, vita sapremo vedere nelle stelle del cosmo, il suo sorriso. Amin.