domenica 7 dicembre 2014

La Vergine Maria nella spiritualità orientale

La Maternità di Maria nell'antica tradizione bizantina


LA MADRE-VERGINE
L'annuncio che Dio si era «fatto uomo», era morto per noi e risorto, costituiva il cuore del kerygma primitivo lanciato come squillo su tutta la terra. L'eterno consiglio
del Padre questo aveva decretato ed attuato per noi: non però secondo le leggi comuni di natura, ma in un modo nuovo e divino.
I simboli «apostolici», i simboli cioè tradizionali delle chiese sparse nel mondo, hanno tutti professato, con mirabile consonanza, il concepimento e la nascita verginale di Cristo:
“Il ferro è nero e freddo; ma quando è arroventato prende la forma del fuoco; diventa lucente, ma non annerisce il fuoco; diventa incandescente, ma non raffredda la fiamma ...».
«Nato da Maria la vergine», «nato per opera di Spirito santo da Maria la vergine», «generato da Spirito santo e da Maria la vergine», «concepito da Spirito santo , nato da Maria la vergine», «disceso dai cieli ed incarnato da Spirito santo e da Maria la vergine e diventato uomo» ...
Origene nel III secolo non dubitava di affermare:
«A tutto il mondo è nota la predicazione cristiana, più degli assiomi dei filosofi. Chi infatti ignora la nascita di Gesù da una Vergine, la sua crocifissione, la sua risurrezione? ...».
È la prima e basilare professione cristologico-mariana, il protodogma da cui tutto dirama e fiorisce: include e congiunge l'iniziativa libera e gratuita di Dio e la persona
umana di Maria, nel suo più alto atteggiamento di accoglienza e di donazione di sé: la sua verginità. Nessuno infatti poteva costringere Dio a chinarsi su di noi peccatori e disgregati dal male, nessuno meritava che egli intervenisse a nostro favore: soltanto la sua tenerezza e pietà infinita lo indusse a mandarci come salvatore l'unico Figlio. Questa iniziativa misericordiosa e gratuita di Dio si rivela e si compie con l'azione fecondante dello Spirito santo su una carne vergine ed una persona vergine, Maria: ne sono interamente esclusi l'iniziativa e l'apporto biofisico dell'uomo. «Non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo (maschio), ma da Dio egli è stato generato» (Gv 1,13). Il testo giovanneo, commentato in tal senso dai primi Padri, pone Cristo in una sfera di singolarità, fuori dal nostro modo di nascere: la sua generazione umana secondo la carne ha come primo principio l'intervento divino: egli è «generato da Dio».
Conseguentemente la verginità di Maria viene innanzitutto contemplata nel momento dell'annunciazione, nell'istante in cui diviene divinamente feconda, ma di una fecondità libera ed umana, cosciente e responsabile. Essa tuttavia comporta, come preparazione che i Padri antichi vedono indispensabile, la verginità di cuore e di vita, e include la susseguente perpetua consacrazione verginale al -,piano di Dio in Cristo. «Nato da Maria, la vergine»:
l'articolo determinativo, che tutti i simboli prepongono all'appellativo «vergine», mostra in qual senso la chiesa delle origini riguardasse la persona di Maria: nella sua qualità unica ed irrepetibile di «vergine»: la vergine per antonomasia, la vergine predetta nei testi profetici, compendio della spiritualità di Israele, preludio della verginechiesa.
Per questo Ignazio di Antiochia cataloga la «verginità» di Maria (nel contesto si intende il verginale concepimento di Cristo) fra i maggiori portenti di Dio:
«Il nostro Dio Gesù Cristo fu portato in seno da Maria, secondo l'economia di Dio, (generato) da seme di David e da Spirito santo; e nacque e fu battezzato, per purificare l'acqua con la sua passione. E rimase occulta al principe di questo mondo la verginità di Maria e il suo parto, come pure la morte del Signore: tre clamorosi misteri, che si compirono nel silenzio di Dio».
Giustino martire fa della maternità verginale uno dei punti centrali della sua apologia ai pagani e del suo dialogo interlocutorio coi giudei, ricorrendo abbondantemente alle «profezie» veterotestamentarie per documentare che un evento così inaudito, quale una madre-vergine, non è racconto mitologico, ma verità storica lungamente predetta ed infine realizzata dal Dio onnipotente. Ireneo dal canto suo, continuando Giustino ed aprendo la via al futuro cammino di approfondimento dogmatico, subordina all'umana salvezza la maternità verginale: il «segno» infatti che Dio predisse e promise ad Acaz e alla casa di Davide - l'Emmanuele da Vergine - è il signum salutis nostrae: Maria ne è piedistallo e premessa, con la sua verginità divinamente feconda: da vergine infatti egli nasce, perché è Dio; ma ha una madre, perché s'è fatto uomo per salvarci. «Ecco, la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio, e sarà chiamato Emmanuel, Dio-con-noi» (Is 7,14; Mt 1,22-23).
Questa la linea primordiale dei Padri e dei simboli, che anche l'iconografia e l'epigrafia testimoniano, che la stessa letteratura apocrifa immaginosamente parafrasa e descrive. Ma i Padri tentarono inoltre di cogliere, nel tessuto del disegno divino che include la Vergine, il motivo profondo inteso da Dio. Lo trovarono e l'espressero col principio della ricapitolazione e della ricircolazione: bisognava infatti scrive Giustino, che «per quella via per la quale, originata dal serpente, ebbe principio la disobbedienza, ''per la medesima via venisse ugualmente distrutta»; l'uomo cioè doveva riavere la vita per mezzo di colei che gli diede la morte. La donna-vergine delle origini, Eva, viene sostituita e riabilitata dalla donna-vergine dei tempi nuovi, Maria. Due vergini: una all'inizio della storia, l'altra nella pienezza dei tempi; due «economie», una di rovina per tutti, aperta dalla disobbedienza verginale di Eva, l'altra di salvezza per tutti, tracciata dall'obbedienza verginale di Maria:
«Quello infatti che la vergine Eva con la sua incredulità aveva annodato, lo sciolse la vergine Maria con la sua fede».
LA MADRE VERA
Costretti dalle polemiche contro gli gnostici e i doceti, i Padri dei primi secoli ribadiscono, a volte con crudo realismo, la verità concreta della maternità di Maria. Il docetismo gnostico riduceva infatti la carne di Cristo a pura parvenza come di fantasma, cancellando ogni rapporto fisico tra madre e figlio; e la corrente gnostica valentiniana, d'ispirazione platonica, riduceva l'azione materna di Maria a una mera strumentalità passiva: «Cristo è passato attraverso Maria, come passa l'acqua attraverso un tubo», affermava Valentino." Maria dunque non avrebbe dato nulla al Figlio, o null'altro che una ricezione strumentale, senz'alcun apporto fisico.
La risposta dei Padri è chiara e decisa: tutta la realtà umana del Cristo viene solo da Maria! Ignazio di Antiochia, nelle splendide lettere vergate durante il viaggio al martirio, martella gli eretici coi capisaldi della fede:
«Tappatevi le orecchie se alcuno vi parla altrimenti di Gesù Cristo: che è dalla stirpe di David, che è da Maria, che veramente nacque, mangiò e bevve, veramente fu perseguitato sotto Ponzio Pilato, veramente fu crocifisso e morì... veramente risuscitò dai morti»; «Egli è veramente dalla stirpe di David secondo la carne, Figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio, nato veramente da Vergine...».
Questa carne umana, vera, Cristo l'ha presa da Maria: egli è tutto «da Maria» in quanto uomo. Anzi Ignazio, in un testo unico nella letteratura patristica, compendia in poche frasi antitetiche, quasi in un inno liturgico, la dipendenza di tutto l'arco storico di Cristo dalla matrice materna:
«Uno solo è il medico, umano e divino, genito ed ingenito, in carne fatto Dio, in morte vita vera, e da Maria e da Dio, prima passibile poi impassibile, Gesù Cristo Signore nostro».
Maria è così all'inizio del mistero di Cristo, come fonte che gli trasmette l'umano: carne vera che sempre dipende da lei, quando è concepita e partorita, quando - assunta dal Verbo - viene in lui divinizzata, quando - dopo la risurrezione - non è più soggetta alla passibilità e alla mortalità. Per questo in s. Ignazio tutto il processo generativo ha la sua estrema importanza: il concepimento, la gravidanza, e soprattutto il parto: «nato veramente da vergine», «veramente nacque». Anzi il parto di Maria costituisce per Ignazio uno dei tre grandiosi misteri, accanto al concepimento e al mistero pasquale. A noi sfugge oggi il peso e il valore che gli antichi documenti della tradizione attribuivano alla «nascita» di Cristo e al «parto» di Maria; ma lo si capisce, se si pensa che gli gnostici consideravano la venuta di Cristo come «epifania» o semplice comparsa, priva di realtà e di concretezza umana. La vera «epifania» di Cristo per i Padri è il suo nascere da Maria, che lo ha reso visibile, palpabile da tutti.
Nel secolo II, Giustino martire, pur imbevuto di filosofie, compie nell'intuizione del mistero un passo in avanti molto importante: egli innesta la reale origine del Verbo incarnato dal seno di una donna - la vergine Maria - nell'albero genealogico non solo di Davide e dei patriarchi, ma dello stesso Adamo, il primo uomo, da cui anche Cristo, tramite Maria, riceve trasmessa come noi la natura e la denominazione di uomo.
Ireneo porta a compimento la dottrina cristologico-mariana delle origini sulla vera natura umana di Cristo e sulla verità delle azioni materne di Maria: il Redentore degli uomini infatti - egli argomenta contro gli eretici - doveva avere l'identica natura dei redenti: vera carne e vero sangue, dell'antica pasta di Adamo: fondamento insostituibile al suo agire e al suo patire: poiché altrimenti non avrebbe potuto sentir fame e sete, soffrire stanchezza e sudar sangue, morire e risorgere; né avrebbe potuto redimerci.
Nel IV secolo i Padri di tutte le scuole - alessandrina, antiochena, sira, romana ed africana - insorsero contro l'errore di Apollinare, che privava la natura umana del Verbo della parte razionale dell'anima. Scrive Gregorio di Nazianzo nei suoi Poemi:
«Per amor mio l'Immortale uscì mortale, da Madre vergine, integro uomo per salvarmi tutto: poiché tutto Adamo era caduto a causa del cibo funesto».
Nel V secolo l'Inno Akathistos, prolungando l'intuizione di Ireneo e dei Padri di Efeso, scorgeva nel grembo verginale non solo la fonte della carne di Cristo, ma anche dei sacramenti della chiesa che in Cristo rigenera gli uomini a Dio:
«Ave, per noi sei la fonte dei sacri misteri; ave, tu sei la sorgente dell'acque abbondanti. Ave, o fonte che l'anime mondi; ave, o coppa che versi letizia. Ave, fragranza del crisma di Cristo; ave, tu vita del sacro banchetto».
Dall'VIII sec. e per tutta la successiva tradizione bizantina la visione s'allarga al cosmo: non solo a nome degli uomini, ma a nome di ogni creatura, terrestre e celeste, la vergine madre offre al Figlio di Dio, la sua carne, affinché, assumendola, egli porti all'apice della perfezione, alla piena comunione personale con Dio tutto il creato.
LA MADRE UMANA
La Vergine non è madre del Verbo soltanto per la sua funzione generativa, ma perché con tutta se stessa l'ha accolto e gli ha dato tutto di sé: consenso, amore, compartecipazione, dolore.
Già il secolo II, con Giustino ed Ireneo, fissava la sua attenzione sulle disposizioni di fede e di ubbidienza con le quali Maria, contrapponendosi ad Eva, cancellava gli effetti funesti del peccato.
Dal IV secolo, prima con Efrem siro, poi con gli omileti ed innografi bizantini, la contemplazione si incentrò su due momenti-chiave della vita di Maria: la sua tenerezza di madre nell'infanzia del Signore e il suo tremendo dolore nella passione di Cristo. Al tempo del concilio di Efeso, Basilio di Seleucia nella sua celebre omelia sulla madre di Dio, dava voce ai sentimenti della Vergine sulla culla del Figlio:
«Quale nome adatto potrò trovare per te, o Figlio? Quello di uomo? Ma la tua concezione è divina! Quello di Dio? Ma assumesti carne umana! Che farò dunque per te? Ti nutrirò col latte, o ti celebrerò con inni? Avrò cura di te come madre, o ti adorerò come serva? Quale prodigio ineffabile e sublime! Il cielo è tuo trono, e il mio grembo ti porta».
Il secondo momento, mai ignorato dai grandi autori bizantini, presenta la madre ai piedi del Figlio crocifisso. La «spada» di Simeone, che Origene interpretò come prova suprema di fede della Madre-discepola davanti alla realtà misteriosa e al soffrire inaudito del Figlio-Dio, fu in seguito commentata come predizione di straziante dolore materno nella passione di Cristo. Nell'Inno di Romano il Melode (sec. VI), Maria alla Croce, la Madre implora che il Signore le conceda di capire e di partecipare al mistero del suo soffrire: «Io son vinta, o Figlio; dall'amore son vinta, e non accetto davvero di restare nel talamo, mentre tu sei sulla croce; io in una casa e tu in un sepolcro. Lasciami venire con te!».
Innumerevoli «staurotheotokia» (tropari alla Vergine ai piedi della croce) dal secolo VII ad oggi costellano la liturgia bizantina di ogni settimana, non solo del tempo di passione, dipingendo con tratti toccanti la Madre davanti al suo Dio crocifisso: dolore e fede si fondono in uno nel suo cuore. Dalla croce, con Germano di Costantinopoli (sec. VIII), la contemplazione si prolunga al sepolcro, dove Maria effonde il suo lungo lamento («threnoi») sul Figlio ucciso: dolore e speranza si compenetrano: in lei tutta la chiesa piange il Trafitto e attende il Risorto.
Così nella tradizione bizantina a poco a poco maturò la convinzione, che la Madre fu tanto unita al Figlio in tutto l'arco della vita terrena, e con tale profondità, da avere quasi in comune con lui il pensare, l'agire, il gioire, il soffrire. Giovanni Geometra (sec. X) scrive:
«Come l'ombra è unita al corpo; ancor più, come il Verbo, dal momento che assunse da Maria la natura umana non se n'è più separato; allo stesso modo, o quasi, la Vergine dopo averlo generato non fu mai separata dal suo Figlio in tutte le sue attività, nelle sue disposizioni, nella sua volontà, anche se ne fu separata secondo la persona. Quando egli pativa, con lui pativa; quando egli operava miracoli, era come se lei stessa li avesse operati. Quando era tradito, arrestato, giudicato, e quando soffriva, non solo era presente ovunque al suo fianco, ma soffriva con lui e -se non è temerario dirlo - soffriva più ancora di lui; atrocemente dilaniata, sospirava di subire mille volte i dolori che vedeva soffrire al suo Figlio».
Possiamo dunque affermare che la tradizione d'oriente sempre vide Maria come madre nel senso più umano e più pieno: madre perché ha dato al Cristo la carne, sapendo, credendo e volendo; e perché, dal giorno in cui fu nel suo seno fino a quando risorse glorioso, visse totalmente per lui, partecipe della sua missione, della sua vita, della sua morte, della sua gloria.
LA THEOTOKOS
All'indomani della controversia ariana, che attirò l'attenzione sul mistero della Trinità e sull'eterna generazione del Verbo dal Padre, nacque nella seconda metà del secolo IV un'altra importantissima discussione, che riguardava la persona e le nature di Cristo. Si trattava cioè di precisare come le due nature si trovassero unite, in che senso si potesse affermare che il «Verbo si era fatto carne», come intendere soprattutto la compenetrazione nell'unico Cristo delle diverse «azioni e passioni».
Servì non poco a chiarire la questione l'errore di Apollinare, prontamente rigettato da tutte le chiese: egli, per salvaguardare la strettissima unione divino-umana nell'unico Cristo, era giunto ad asserire che il Logos increato aveva sostituito la parte razionale dell'anima umana, in modo tale che chi pensava, decideva, amava, era lo stesso Verbo di Dio, attraverso la carne assunta da Maria a strumento della divinità.
Alla chiarificazione della dottrina cristologica diede motivo anche il titolo «Theotokos», che nella scuola di Alessandria era in uso fin dal secolo III. Poteva infatti, come avvenne, suscitare dubbi e reazioni, proprio perché congiungeva e rapportava a Dio una funzione generatrice umana. Come si può accettare che Dio sia generato ed abbia origine da Maria, una creatura?
L'appellativo «Madre di Dio - Maynouti» era attribuito nella lingua dei faraoni a Iside, la dea-madre del dio Oros; ma le comunità cristiane d'Egitto non dubitarono di accettarne la traslitterazione greca «Theotokos» per applicarla a Maria, la vergine-madre di Cristo, certo con altra prospettiva di fede ed altro contenuto teologico. Qui infatti non si trattava di una «dea», né si poteva parlare di «generazione del dio», quasi che egli cominciasse ad esistere a partire da questa maternità: poiché il Verbo esiste da sempre, eternamente generato dal Padre; si trattava invece di precisarne la generazione umana «secondo la carne» da una nostra sorella, Maria, nel tempo, secondo la natura che egli volle far propria, venendo tra noi a compiere il progetto del Padre suo a nostro favore: madre vera certamente, non della divinità, ma di Colui che si compiacque di unire a sé una natura umana perfetta, diventando uomo fra gli uomini, partecipe del loro essere e del loro destino. In questa linea, a detta dello storico Sozomeno, Origene difese la liceità del titolo Theotokos nel suo commento alla Lettera ai Romani.
I contenuti dogmatici della divina maternità hanno il loro fondamento nella Bibbia e la loro prima embrionale espressione nelle opere degli antichi Padri. Ignazio di Antiochia non dubitò di professare che «Dio s'è manifestato in forma umana»; che i fedeli «sono stati rianimati nel sangue di Dio»; e, parlando direttamente di Maria, dice che «il nostro Dio Gesù Cristo fu portato da Maria nel suo seno secondo l'economia di Dio, concepito da seme di David e da Spirito santo.
Identica, ma ancor più sviluppata teologia in Ireneo, il quale in più luoghi afferma che proprio l'unigenito Figlio del Padre si fece uomo, assumendo con la carne le proprietà della carne, in modo però che restassero distinte anche dopo l'unione le nature e le azioni. Così scrive:
«Imparate dunque, o insensati, che Gesù il quale patì per noi ed abitò fra noi, proprio lui è il Verbo di Dio»; «Paolo sottolinea che lo stesso Cristo, che patì, è il Figlio di Dio che per noi morì e anche Ippolito, nel secolo III, conferma questa dottrina, mentre con tenera apostrofe così si rivolge a Maria: la vera controversia nei termini e nei contenuti sorse nella seconda metà del secolo IV, con il confronto tra le due maggiori scuole d'oriente, l'alessandrina e l'antiochena. 50 anni prima del concilio di Efeso, con parole concise quasi di definizione dommatica, Gregorio di Nazianzo, il più celebre teologo, difendeva il termine «Theotokos», derivandolo da una chiara dottrina cristologica:
«Noi non separiamo l'uomo dalla divinità, ma un solo e identico lo professiamo, prima non uomo, ma Dio e unico Figlio e più antico dei secoli; alla fine però anche uomo: uomo assunto per la nostra salvezza: passibile nella carne, impassibile nella divinità, terrestre ed insieme celeste. E ciò affinché per mezzo di quest'unico integro uomo e insieme Dio fosse rifatto integralmente l'uomo caduto in peccato. Se dunque uno non accetta che la santa Maria sia Theotokos, è escluso dalla divinità. Se uno introduce due figli, il primo da Dio Padre, l'altro dalla Madre, e non unico e medesimo Figlio, precipiti anche costui dall'adozione filiale promessa a chi tiene la retta fede».
La controversia divampò quando Nestorio, monaco antiocheno, fu elevato al seggio episcopale di Costantinopoli il 10 aprile 428. Dal pulpito impugnò immediatamente il titolo «Theotokos», perché equivoco e sospetto d'errore: «Continuano ad interrogarci: "Maria è theotokos o anthropotokos?". Ma può Dio avere una madre? sarebbe scusabile il paganesimo, che assegna madri agli dèi! No, mio caro, Maria non partorì Dio: la creatura non partorì 1'Increato, ma un uomo strumento della divinità»ci redense col suo sangue nel tempo stabilito»;" e parlando della maternità di Maria: «Simeone... il bambino che teneva in braccio Gesù nato da Maria, lo confessava Cristo Figlio di Dio, luce degli uomini»; e altrove: «Colui che la legge per mezzo di Mosè e i profeti del Dio altissimo e onnipotente hanno annunciato, il Figlio del Padre dell'universo, per mezzo del quale ogni cosa esiste, colui che s'intrattenne con Mosè, costui venne in Giudea, generato da Dio per opera dello Spirito santo e nato dalla vergine Maria, figlia di David e di Abramo».
«Dimmi, o beata Maria, chi avevi tu concepito nel seno? chi portavi nel tuo grembo verginale? Era il Verbo primogenito di Dio, che in te disceso veniva plasmato nel tuo seno - uomo primogenito - al fine di mostrare il primogenito Verbo di Dio unito al primogenito uomo».
La reazione della scuola alessandrina, capeggiata da Cirillo, s'allargò all'impero, e condusse alla convocazione del concilio di Efeso per la pentecoste dell'anno 431. Ad Efeso, i padri conciliari (assente volontariamente Nestorio, ancora in viaggio il gruppo dei vescovi antiocheni e i legati del papa) lessero pubblicamente il simbolo di Nicea, come punto di riferimento comune, e dichiararono vera la linea tradizionale alessandrina attestata da Cirillo, falsa quella di Nestorio; e dissero non solo lecito, ma doveroso, secondo la tradizione dei padri, il titolo «Theotokos». 20 anni dopo, nel 451, quando ancora gli animi non si erano pacificati, un altro concilio ecumenico, quello di Calcedonia, definì in maniera inequivocabile come intendere l'unione delle due nature in Cristo e la divina maternità di Maria: «Seguendo i santi padri, tutti ad una sola voce insegniamo che si deve confessare un solo e identico Figlio, il nostro Signore Gesù Cristo: lui stesso perfetto nella divinità, lui stesso perfetto nell'umanità; veramente Dio e - egli medesimo - veramente uomo composto di anima razionale e di corpo; consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale egli stesso a noi secondo l'umanità, in tutto a noi simile fuorché nel peccato; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, generato egli stesso negli ultimi giorni per noi e per la nostra salvezza secondo l'umanità da Maria la vergine, la Theotokos: un solo ed identico Cristo, Figlio, Signore, Unigenito, confessato in due nature, ma senza confusione, senza mutazione, senza divisione, senza separazione...» .
Questa è la definizione più solenne, che rimane fino ad oggi, per tutte le chiese, la pietra angolare della nostra professione di fede nella divinità ed umanità di Cristo, ipostaticamente unite nell'unica persona del Signore e nostro Dio Gesù Cristo, nato nel tempo da Maria la vergine, la santa «madre di Dio».
La controversia dogmatica, che durò oltre un secolo ed infranse purtroppo in maniera duratura l'unità della chiesa, servi non solo a giustificare un titolo cultuale, attestato già dalla prima antifona mariana finora conosciuta, il Sub tuum praesidium, ma ricondusse l'attenzione sulla persona di Maria e sulla sua presenza ecclesiale, proprio in grazia della divina maternità che la colloca al di sopra degli apostoli e dei martiri, anzi al di sopra degli angeli e di tutto il creato, costituendola la più vicina a Dio. Scrive Proclo di Costantinopoli, uno dei padri di Efeso:
«Nulla al mondo è tale, quale la madre di Dio Maria. Percorri pure col pensiero l'universo, o uomo, e vedi se v'è qualcosa maggiore o uguale della santa Vergine Madre di Dio. Perlustra la terra, esplora i mari, esamina l'aria, investiga i cieli, considera tutte le potenze celesti, e vedi se sia possibile trovare un tale prodigio in tutta la creazione...: lei sola infatti in modo ineffabile accolse nel suo talamo colui che tutto l'universo con timore e tremore inneggia».
Dalla divina maternità scaturisce inoltre la «consacrazione» personale di Maria al mistero di Dio, per quella quasi-simbiosi che intercorse tra lei e il Verbo mentre dimorava nel suo seno: così affermano padri e scrittori bizantini, dal V secolo in poi; dalla divina maternità promana quel potere materno, che tutta la tradizione le riconobbe; dall'esser la «vera madre di Dio» s'irradia il mistero che l'avvolge e la colloca al vertice del cammino umano, quasi permanente icona e segno di ciò che tutta la chiesa ed ogni uomo è chiamato a diventare, in Cristo.
Desidero chiudere questa succinta esposizione patristica sulla maternità di Maria con l'antifona che il coro canta, in ogni messa di rito bizantino, dopo la consacrazione, in risposta all'anamnesi del celebrante, quando ad alta voce nomina la madre di Dio:
«È veramente giusto dire beata te, la beatissima ed immacolata Theotokos e madre del nostro Dio. Te, che sei più degna d'onore dei cherubini e incomparabilmente più gloriosa dei serafini, te, che in modo incorrotto hai generato il Dio Verbo e sei veramente madre di Dio, te noi magnifichiamo».

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