La famiglia e le nuove sfide pastorali
Un Sinodo non Sinodale.
Il mese di ottobre,è stato un periodo fibrillante di incontri,nel sinodo
della chiesa cattolica romana. il Vescovo di Roma,Francesco,ha voluto che i
vescovi in rappresentanza di tutto il mondo si ritrovassero , per discutere e
proporre delle nuove linee pastorali in merito alla famiglia, divorziati e
separati,coppie di fatto e la dolente (
a loro giudizio)nota degli omosessuali.
Abbiamo assistito a giorni di discussione,ascoltando dai media e leggendo
dai giornali,atteggiamenti di apertura e spinte in avanti,da parte di diversi
vescovi,così come di interviste,che hanno mantenuto di fatto una chiusura e un
tono,che fatico ancora a leggere come volontà di Dio.
Senza voler polemizzare,desidero più che altro,esporre il mio pensiero e le
mie riflessioni,come cristiano e come vescovo.
La famiglia.
Stando a quando insistentemente,la chiesa cattolica romana,ama definire la
famiglia in rapporto a quella di Nazareth,è sorprendente come i testi
biblici,che parlano di Maria,Giuseppe e Gesù,ci dicono immediatamente due cose
inconfutabili.
1. Maria
concepisce per diretto intervento di Dio,infatti noi crediamo all’azione dello
Spirito Santo.
2. Giuseppe,che
inizialmente vuole ripudiarla,l’accetta come sposa,divenendo di fatto il Padre
putativo,potremmo dire affidatario di Gesù.
Nel quadro
di questa pericope evangelica,si descrive senza ombra di dubbio che la famiglia
di Gesù,è una famiglia de facto e non de iure. In nessun altro passo,che parli
di questa nuova famiglia si intravedono segni di una qualsiasi giurisprudenza,o
qualsivoglia argomentazione morale e tantomeno,sono presenti atti cultuali o
liturgici. Dio quando opera non ha bisogno di riconoscimenti,poiché ,nella
fedeltà è il suo amore.
Per
comprendere ancora più affondo l’dea che Gesù ha della famiglia,dobbiamo
aspettare qualche anno e leggere alcune reazioni che Egli stesso ha, a
proposito manifestato.
In
Marco,3,31-35 leggiamo:
Giunsero sua
madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. 32 Tutto
attorno era
seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue
sorelle
sono fuori e
ti cercano». 33 Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei
fratelli?».
34 Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco
mia madre e
i miei fratelli! 35 Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello,
sorella
e madre».
La domanda sorge spontanea,perché Gesù risponde con tanta determinazione e
quasi durezza.
La risposta meriterebbe,una certa articolazione esegetica,ma
sintetizzando,possiamo dire con chiarezza che Gesù,introduce un nuovo modo di
concepire la famiglia, l’elemento biologico sembra lasciare il posto a quello
spirituale( chiunque compie la volontà di Dio ).
Anche in Matteo,12,46-50,troviamo la stessa situazione,così come in
Luca8,18-21 e in Giovanni 2,12,seppur con una connotazione differente.
Questa novità sulla famiglia,non è da considerare secondaria a tutta
l’opera della salvezza,perché l’idea fondante la famiglia,possiamo dire
l’elemento sorgivo,si struttura attorno alla comunione del cuore e dello
spirito. Prova ne è il passo di Luca 14,26
Se
uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i
figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere un mio
discepolo".
La versione della CEI, ha edulcorato la traduzione del verbo
greco Miseo con amare, quando in
realtà la traduzione originaria è odiare,soprattutto nel contesto lucano.
Questo per dire come la paura di mettere in bocca a Gesù parole non
propriamente consone o negative sulla famiglia è stato molto forte,da parte
degli studiosi della CEI. Ma al di la dell’aspetto esegetico,rimane
inconfutabile che in Gesù la famiglia ,propriamente conosciuta nel senso moderno, non trova un riferimento teologico,
propriamente inteso. Va da se che qui non si vuole assolutamente destituire di
fondamento sociologico e antropologico, la realtà della famiglia, perché rimane
almeno in linea di principio psicologico ,la prima e fondamentale esperienza
umana e socio-educativa. In sintesi i vangeli non si soffermano su temi
analitici sulla famiglia, solo Paolo di Tarso, pone alcune questioni, che fanno
già parte di un contesto storico-teologico, non deduttivo a livello
scritturistico.
La
sacramentalita’ del sacramento.
Molto spesso, si fa riferimento nel matrimonio, celebrato religiosamente,
all’aspetto sacramentale. Anche in questo caso, la riflessione da parte della
gerarchia ecclesiastica, presenta delle lacune intrinseche , tra vita di coppia
e sacramento.
Lo stesso impianto dottrinale, della chiesa romana, si
autodetermina in una fissità secolare, come valore assoluto, divenendo unico
metro di misura.
La dottrina non è qualcosa di rigido e fissato una volta per sempre, ma
conosce sviluppi e approfondimenti in relazione al tempo in cui ci si trova per
esprimere l'annuncio dell'Evangelo a misura dell'epoca in cui ci si trova. c'è
una comprensione del sacramento che a volte è slegata dalla realtà della vita
matrimoniale e che risente di una visione ancora deficitaria della dimensione
sessuale.
In primo luogo, i sacramenti non sono un aggiunta esteriore e posticcia a
una realtà umana che sarebbe in sé carente e peccaminosa. I sacramenti,
piuttosto, ci aiutano a comprendere e a raggiungere la pienezza della nostra
umanità. E quel che caratterizza il matrimonio, rispetto ad altre forme di
relazione umana, è proprio la dimensione sessuale, da non identificare
riduttivamente con la genitalità.
Uomo e donna cercano nell'intimo una comunione di vita, di alleanza e di
fedeltà con chi è altro, con chi è sessualmente differente. L'amore coniugale è
questo ed è perciò sostanzialmente sessuale, ma è una sessualità che non si
vive solo in camera da letto, ma in tutte i momenti della vita a due. La
comprensione di questa realtà, all'interno del cattolicesimo, è ancora
ostacolata da un sospetto nei confronti dell'affettività sessuale che ha radici
antiche, come se fosse portatrice di un elemento intrinsecamente peccaminoso.
Ecco perché molti discorsi riguardanti i divorziati e le persone
omosessuali ruotano, in modo eccessivo, attorno al sesso. Come se l'unione
fisica dei corpi avesse bisogno di essere redenta dal matrimonio e dalla
procreazione, perché altrimenti sarebbe un male.
Chi è sposato sa che l'apertura alla vita è una dimensione irrinunciabile
della sessualità, ma non la esaurisce. Sarebbe come dire che due coniugi si
amano solo quando intendono avere dei figli. Un amore coniugale che non passi
anche per la corporeità avrebbe qualcosa di patologico, escludendo un aspetto
primario dell'essere dell'altro.
Certo, l'esercizio fisico della sessualità corre il rischio dell'egoismo e
richiede un apprendistato e una crescita umana che dura per tutta la vita. Ma
questo lo vediamo già nel Vangelo. Mi sorprende, infatti, che per quel che si
sa i lavori sinodali non si siano ancora soffermati su Matteo 5,27-28 che fa
parte del discorso della montagna.
Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico:
chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei
nel suo cuore.
Prendiamo sul serio questa parola di Gesù, tanto quanto quelle
sull'indissolubilità. L'adulterio, prima che nell'atto sessuale in sé, risiede
nel cuore. Ecco perché ci sono persone formalmente sposate, conformi ai dettami
della chiesa, che sono adultere e altre che, pur non essendo sposate, vivono
una fedeltà.
Ma c'è altro, se ascoltiamo con radicalità questa parola di Gesù, chi può
considerarsi escluso? Non è un fatto di durezza, ma di realismo: la nostra
capacità di amare è limitata, è in cammino. Anche per chi è sposato e
formalmente rispetta le norme canoniche, perché conta quel che avviene nel
cuore. Il matrimonio ci indica una pienezza da raggiungere, che non esclude la
presenza di elementi di positività e verità anche in altre unioni umane. Tutti
siamo pellegrini. La mia perplessità nel dibattito sinodale, nasce da una
lettura di approccio
"patologico"
al matrimonio: come se il problema da risolvere fossero i divorzi e non ci sia
invece da interrogarsi sulla comprensione, che la chiesa cattolica ha del
matrimonio e sul modo di presentarla oggi. E' vero che ci sono dei fattori
culturali e sociali che minano la definitività della scelta, ma proprio per
questo è necessario innanzitutto ri-dire l'annuncio del matrimonio, più che
trovare la soluzione di un problema. Posto che quest'ultimo è un discorso
necessario, in quanto chiama in causa la sofferenza di molti, non si può
pensare che tutto finisca lì.
Il
vero problema è a monte (come la comunità cristiana pensa il matrimonio nella
fede e accompagna ad esso) e non a valle (come la comunità cristiana si pone di
fronte a separazioni, divorzi e nuove nozze). Quanti prelati, quanti cattolici
spendono parole , e magari tuonano, sull'importanza della famiglia, sulla centralità
della famiglia, sulla famiglia valore non negoziabile e poi, nei fatti, come la
fede e la chiesa sostengono due persone nel loro cammino di sposi? Sì, con qualche
corso e qualche predica. C'è una distanza forte tra l'importanza che la
famiglia ha nei discorsi ecclesiali e la realtà della vita della chiesa.. Al
più, ci si preoccupa di leggi, coppie di fatto e coppie omosessuali con un
atteggiamento di polemica e difesa. Molto meno ci si preoccupa di cammini di
umanità e di fede. Il sinodo poteva essere una grande occasione, riaprendo una
riflessione sul matrimonio e non di chiuderla, limitandosi a ripetere il già
detto.
L’indissolubilità,
come limite invalicabile.( Card. Müller)
Quanto meno, questa argomentazione la si può considerare,
senza ombra di dubbio, proveniente da quegli ambienti di Curia interessati a
salvaguardare una continuità su tutto. Rileggendo il testo
Troviamo,
presenti due linee argomentative a partire dall'indissolubilità del matrimonio:
una riguardante la possibilità di divorzio e seconde nozze in riferimento alla
posizione della chiesa antica e del cristianesimo ortodosso (che risolverebbe
in radice la questione dell'accesso ai sacramenti) e l'altra riguardante la
possibilità di ammettere ai sacramenti il divorziato risposato pur considerando
sempre in essere il primo matrimonio.
La
prima concerne una serie di questioni esegetiche e storiche.
Il
dato esegetico concerne l'interpretazione di Mt 5,32 e 19,9. Ci sarebbe anche
il cosiddetto "privilegio paolino" di 1 Cor 7,12-17, ma si applica a
una situazione particolare, non al matrimonio in sé.
Sui
testi evangelici, Müller si limita a dire che "la Chiesa non può basare la
sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche controverse". E'
un'affermazione troppo sbrigativa: quelle che lui definisce ipotesi esegetiche,
sono ammesse da un'altra tradizione ecclesiale. E' un po' leggero liquidarla
come se niente fosse, visto che non è mai stata oggetto di un vero e
proprio discernimento nella chiesa cattolica. E se, invece, quest'altra tradizione
avesse realizzato un ascolto della Parola di Dio su cui i cattolici hanno
sorvolato?
Dal
punto di vista storico, Müller è altrettanto sbrigativo sulla chiesa
antica e sui Padri. Su che cosa si basa? Ho fatto qualche ricerca. Gli studi in
proposito mi sembrano quantitativamente scarsi .Ora, su un tema tanto
importante, è sufficiente un singolo saggio accademico per considerare chiusa
la questione? Esistono altre ricerche in proposito? Lo chiedo proprio perché
sono non esperto e credo che ci voglia una base solida per prendere posizione.
Posto
che si respinga totalmente la possibilità di divorzio e seconde nozze, si
tratta di valutare se esistono condizioni per l'accesso ai sacramenti da parte
dei divorziati risposati civilmente. E' la seconda linea argomentativa. Müller
passa in rassegna le possibilità prospettate dal dibattito teologico e le
respinge.
La
prima chiama in causa la coscienza. Scrive l'arcivescovo:
Se i
divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il
precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato
dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio
non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà
della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se
stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il Battesimo è
incorporato, è tenuta a decidere.
In
altre parole, le convinzioni di coscienza devono essere stabilite tramite un
procedimento giudiziario. Ma è sostenibile? E' il Padre che vede il cuore, o un
tribunale canonico? Com'è possibile stabilire con un giudizio ciò che è
autenticamente presente nel nostro intimo?
Secondo
argomento discusso:
Anche
la dottrina dell’epichèia, secondo la quale una legge vale sì in termini
generali, ma non sempre l’azione umana vi può corrispondere totalmente, non può
essere applicata in questo caso, perché l’indissolubilità del matrimonio
sacramentale è una norma di diritto divino, che non è dunque nella
disponibilità autoritativa della Chiesa. Questa ha, tuttavia, il pieno potere —
sulla linea del privilegio paolino — di chiarire quali condizioni devono essere
soddisfatte prima che un matrimonio possa definirsi indissolubile secondo il
senso attribuitogli da Gesù. Su questa base, la Chiesa ha stabilito gli
impedimenti al matrimonio che sono motivo di nullità matrimoniale e ha messo a
punto una dettagliata procedura processuale.
Anche
qui, tutto si riduce a un fatto processuale. Però, qui Müller mi sembra
compiere un errore argomentativo: il problema in oggetto è l'indissolubilità
del matrimonio o la possibilità del divorziato risposato di accedere alla
comunione sacramentale? Non è la stessa cosa. Sono due problemi differenti.
Forse,
a chiarire il tutto, ci può aiutare il terzo argomento.
Un’ulteriore
tendenza a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti è
quella che invoca l’argomento della misericordia. Poiché Gesù stesso ha
solidarizzato con i sofferenti donando loro il suo amore misericordioso, la
misericordia sarebbe quindi un segno speciale dell’autentica sequela. Questo è
vero, ma è un argomento debole in materia teologico-sacramentaria, anche perché
tutto l’ordine sacramentale è esattamente opera della misericordia divina e non
può essere revocato richiamandosi allo stesso principio che lo sostiene.
Attraverso
quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si
incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo
la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio
appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si
nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del
peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia.
Ecco,
qui emerge quello che è il vero nodo: l'ordine sacramentale. Attenzione, a
questo punto. Infatti, poco dopo, si legge: per l’intima natura dei sacramenti,
l’ammissione a essi dei divorziati risposati non è possibile.
Allora,
il vero problema, in questo ambito, non è l'indissolubilità del matrimonio,
bensì la natura dei sacramenti. Non è cosa da poco: eppure, tutto l'articolo
dedica molto spazio al tema dell'indissolubilità e poco spazio al tema dei
sacramenti. C'è uno squilibrio su un aspetto decisivo.
Comunque,
la motivazione della non ammissibilità ai sacramenti è data dal n. 84
dell'esortazione Familiaris
consortio.
L’ammissione
all’eucaristia non può tuttavia essere loro concessa. In relazione a questo
viene addotto un duplice motivo: a) «il loro stato e la loro condizione di vita
contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa,
significata e attuata dall’eucaristia»; b) «se si ammettessero queste persone
all’eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la
dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio». Una riconciliazione
mediante il sacramento della penitenza — che aprirebbe la strada al sacramento
eucaristico — può essere accordata solo sulla base del pentimento rispetto a
quanto accaduto, e sulla disponibilità «a una forma di vita non più in
contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». Ciò comporta, in
concreto, che quando la nuova unione non può essere sciolta per seri motivi —
quali, ad esempio, l’educazione dei figli — entrambi i partner «assumono
l’impegno di vivere in piena continenza».
La
motivazione (b) è debole: dire che ammettere all'eucaristia un divorziato crea
confusione sulla dottrina dell'indissolubilità equivale a dire che i fedeli nel
popolo di Dio sono persone prive d'intelligenza e non in grado di capire. Le
persone capiscono, se si dicono le cose nella chiarezza.
La
motivazione vera è che i rapporti sessuali sono considerati un adulterio,
perché in caso di continenza si ammette l'accesso all'eucaristia (e qui c'è una
contraddizione: in questo caso non vale la confusione suscitata nei fedeli?).
E'
questo un argomento sufficiente e insormontabile?
Matrimonio: una riflessione da aprire, non da chiudere
3. L'essenziale del matrimonio
Parlare di matrimonio in termini eminentemente dottrinali o giuridici non
ne coglie in pieno la verità. Quando leggo o ascolto certi discorsi che vengono
da uomini di chiesa mi viene da scuotere la testa. Si coglie che ci sono
aspetti fondamentali che sfuggono. Non ci si sposa né si rimane insieme a
motivo di una dottrina o del diritto canonico. Se si perde di vista questo
assunto, quelli che sono degli strumenti che dovrebbero essere di aiuto,
diventano un fine, producendo una comprensione squilibrata del matrimonio.
Sinceramente, devo dire di aver avuto questa impressione nella lettura
dell'intervento dell'arcivescovo Müller su cui ho iniziato da tempo a riflettere. Qui però siamo alle
prese con qualcosa di vitale per me e per tante persone, qualcosa che ha un
profondo significato di fede. E' la via su cui, con i miei errori e le mie
fragilità, ho giocato la mia vita, è un aspetto sostanziale della mia sequela
del Signore. E, se sono profondamente convinto che c'è qualcosa che non va nel
modo in cui se ne parla, lo devo dire. Per quel poco che vale la mia povera
voce, lo devo dire, cercando di portare buone ragioni nella misura in cui ne
sono capace. Non è un fatto di polemica, ma di onestà come uomo, cristiano e
vescovo.
Tutto l'intervento di Müller è imperniato sulla dottrina dell'indissolubilità
del matrimonio, come se fosse il centro della fede cristiana su questo
sacramento. Detto così, si riduce il matrimonio a un vincolo, a un comando
amministrato dalla chiesa e dai suoi tribunali che ne possono eventualmente
stabilire la nullità. E' come se il sacramento fosse qualcosa che si sovrappone
all'umano e lo vincola. Una visione del genere è povera. Il sacramento,
piuttosto, abita l'umano per portarlo a realizzarsi in pienezza. Il sacramento
umanizza, alimenta la nostra umanità per giungere alla statura di Cristo. Però,
senza mai togliere la nostra libertà che è anche libertà di rifiutare il dono e
di peccare.
L'umanità abitata dal sacramento del matrimonio è l'amore umano, né più né
meno. Un amore che inizia con l'attrazione e il desiderio; diventa scoperta,
conoscenza, condivisione e il desiderio assume un carattere di totalità. E' il
desiderio di essere una sola carne, di un amore che non finisce. E' l'essere a
immagine e somiglianza di Dio, inscritto dentro di noi. Genesi 3,24 non dice un
comando di Dio, dice come noi siamo. L'indissolubilità non è un decreto
arbitrario, è intrinseca all'amore. Indissolubile è l'amore di Dio per il suo
popolo, di Cristo per la sua chiesa, del Padre per ciascuno di noi. Di qui il
nostro poter amare: siamo capaci di amare perché Dio è amore.
Questo credono, o quanto meno intuiscono, due sposi. Se manca, almeno in
minima misura, questa consapevolezza, sono convinto anch'io che il matrimonio
religioso sia nullo. Gli sposi hanno fiducia che il loro amarsi viene da Dio,
che continua la storia iniziata con il battesimo (di cui si fa memoria), che ha
come vertice e alimento l'eucaristia, segno dell'amore di Gesù che arriva fino
alla croce. Sposarsi è avere fiducia che il proprio amore può durare tutta la vita,
perché non siamo soli, Dio è presente nella storia d'amore umana, la benedice.
Ecco l'indissolubilità: è una promessa del Signore in cui si pone fiducia, non
una regola. La chiesa è la comunità che accompagna e sostiene questo amore,
questa fede. Non può essere presente solo per esercitare un giudizio.
4. Peccato e misericordia
C'è però il dramma della libertà che può prendere la via del peccato:
nell'amare possiamo fallire, essere infedeli, indurire il nostro cuore. In
molti modi, non solo sessualmente. Questo può avvenire anche a persone che si
sono sposate con fede. Nessuno è esente a priori. Quando avviene, è un fatto
grave e c'è una componente di peccato, d'infedeltà, se il matrimonio era reale
e non solo facciata.
E' un peccato che la chiesa può perdonare? La missione affidata da Gesù
agli apostoli non è proprio il perdono dei peccati?
Qui bisognerebbe distinguere da una rottura del matrimonio che nasce là
dove uno degli sposi, con leggerezza, "passa ad altro" seguendo una
pulsione egoistica e disinteressandosi del coniuge (ma, allora, mancava già in
partenza la consapevolezza che rende valido il matrimonio) da un deterioramento
dei rapporti che nasce da limiti e fragilità delle persone implicate, con un
carico di fatica e sofferenza per entrambi.
In quest'ultima situazione, il non accesso all'eucaristia dipende dallo
stringere una nuova unione affettiva là dove c'è un'intimità sessuale e non
continenza.
Questo costituirebbe un peccato imperdonabile? Ma come: la chiesa può
perdonare un'omicida, può perdonare un pedofilo, può perdonare un prete che
rinuncia al ministero, ma non può perdonare un divorziato che vive un'altra
storia perché ha dei rapporti sessuali? La misericordia lì non arriva?
Si dice: ah, ma ci vuole il pentimento. Se no, è falsa misericordia, senza
giustizia, che incoraggia il peccato, perché non lo tratta seriamente e lo
svuota della sua gravità.
Prima osservazione: Dio nella Bibbia non agisce così. Il suo perdono
precede la conversione e la suscita, non è una conseguenza della conversione.
Lo vediamo in Osea. Lo vediamo in Gesù, con l'adultera, per esempio (Gv
8,1-11). E' vero che le dice di non peccare più, ma intanto la perdona. Non
aspetta di verificare che si sia convertita, la perdona prima, in anticipo!
Gesù non vuole l'adulterio, lo condanna, ma con il peccatore esercita grande
misericordia ed è così che si pongono le premesse della conversione.
Si dice: sì, ma la chiesa accoglie i divorziati risposati. L'esclusione
dall'eucaristia non è una punizione. E' che non si può, è per far capire che
sono in una situazione di peccato; se non vivono in continenza, vuol dire che
non c'è pentimento, e la chiesa per essere nella verità non può ammetterli
all'eucarestia.
E' falso! Chi conosce persone divorziate che hanno fatto un cammino interiore
serio, sa che il pentimento c'è, che la consapevolezza c'è. E con sofferenza,
non con noncuranza. Ma pentirsi non può voler dire far rinascere
artificialmente una convivenza che non c'è più e distruggere di colpo un
rapporto che si è creato, quando è profondo e consolidato. Il punto è che qui
c'è un'enfatizzazione del peccato sessuale che è una brutta eredità che il
cattolicesimo si porta ancora dietro.
Davvero, l'omicidio può essere perdonato, ma se c'è una nuova unione di cui
fa parte l'esercizio dell'affettività sessuale (non una sessualità disordinata
ed egoistica) non si può dare il perdono? Eppure, ovunque si sposano in chiesa
persone che prima sono state conviventi e hanno avuto rapporti sessuali e non
sono affatto pentite di questo. E succede ovunque. Però, siccome si sposano, si
"regolarizzano".
Ecco il problema: alla radice del divieto dell'eucaristia non c'è l'ordine
sacramentale, l'intima essenza dei sacramenti. I sacramenti non sono riservati
ai puri e ai perfetti: accompagnano il nostro cammino di conversione, ci
sostengono. La questione vera non è di teologia dei sacramenti, secondo me, è
di teologia morale e prima ancora di antropologia: la sessualità.
Sulla sessualità pesa ancora un'impostazione giuridica che deriva da una
visione peccaminosa: se è dentro il matrimonio ed è aperta alla procreazione è
lecita, se no c'è peccato. Semplifico, ma stringendo la sostanza è questa.
La sessualità è un cammino, per gli sposati come per i celibi, un
esercitarsi nell'umanità e nell'amore in cui è sempre presente la zizzania
della nostra insufficienza. Farla rientrare in un dualismo lecito/non lecito è
falsarla, è parlare di qualcosa che non è realmente la sessualità. E far
dipendere da questo l'accesso all'eucaristia, secondo me, deriva da questa concezione
inesatta.
Dire questo non è non credere all'indissolubilità del matrimonio. Neppure è
negare il peccato e giustificare ogni comportamento. Penso sempre a persone che
fanno un cammino serio di penitenza, di fede, di preghiera. Quello che intendo è
dare la possibilità di continuare un cammino di vita cristiana di cui
l'eucaristia è parte essenziale, pur con la ferita del matrimonio che si è
celebrato. Le ferite non si possono cancellare, ma possono curare e guarire. Ci
può essere vita anche dopo la ferita. Non è questa la via mostrataci da Gesù,
la via su cui seguirlo come chiesa?
Ecco perché vorrei si prendesse in considerazione questa prospettiva nel
guardare a una realtà del genere. E' la prospettiva che ci fa vedere come
praticabile una via, piuttosto che un'altra, e io ho voluto suggerire una
prospettiva che so non essere soltanto mia.
Il Gender, Un accenno, alla questione affrontata a livello areo
nel Sinodo.
Vescovi, teologi, mezzi di comunicazione sembrano gareggiare nel
denunciare il pericolo che viene dalla teoria del gender, la quale vorrebbe cancellare la
differenza tra uomo e donna, e con essa distruggere matrimonio, famiglia e
ruoli genitoriali.
Il gender appare come la nuova eresia che ha
conquistato politici e intellettuali, assediando la chiesa e il diritto
naturale in nome del matrimonio gay. Dalla legge contro l'omofobia ai registri
delle coppie di fatto, all'educazione sessuale nelle scuole, tutto sembra
guidato da un grande complotto gender,
portato avanti dal movimento LGBT, come se fosse una sorta di Spetro potente e
ramificata. Questa narrazione è molto diffusa nel discorso pubblico cattolico.
Evoca un pericolo e un nemico contro cui vigilare e mobilitarsi.
Il fatto è che forse le cose non stanno proprio così.
Cominciamo dal "nemico". Si parla ormai della teoria gender come
alcuni decenni fa si parlava del comunismo. Ma dove sono i Marx e i Lenin del gender?
Quali sono il Manifesto e il Capitale di questa ideologia? Come si chiama e
dove ha sede il suo partito? Da nessuna parte, in tutti i testi e discorsi
cattolici sul gender,
si trova una risposta a queste domande, perché in realtà "la" teoria
del gender semplicemente non esiste.
Vent'anni fa, quando frequentavo l'università, nei miei corsi
m'imbattei negli "studi di genere" ( nel mondo accademico anglosassone),
una denominazione che raccoglie ricerche filosofiche, sociologiche e
psicologiche che studiavano il femminile e successivamente il maschile. Queste
riflessioni nascevano dalla presa di consapevolezza che l'immagine della donna,
e il suo posto nella società, erano determinati da una cultura a predominanza
maschile la quale perpetuava un'idea d'inferiorità e una pratica di
subordinazione della donna.
L'obiettivo era la comprensione dell'identità e della differenza
femminile, nella misura in cui non dipendono dal dato biologico, ma da
un'elaborazione simbolica e culturale. Un esempio banale e immediato è l'idea,
per lungo tempo universalmente accettata, dell'inferiorità intellettuale della
donna escludendola così dalla vita politica e dagli studi. Sulla stessa linea,
i gender studies hanno inevitabilmente cominciato a
occuparsi delle omosessualità, le quali sollevano questioni particolari.
Il punto è che le teorie formulate in proposito sono tante e molto
diverse. Le rappresentazioni a cui ho accennato sono perciò forzature
arbitrarie, perché non rispecchiano la realtà. Solo le teorie più radicali
postulano un'insignificanza della differenza biologica e più a monte
antropologica, con i rischi di destabilizzazione sociale e di disintegrazione
dell'identità dell'umano denunciati dal magistero. È un fraintendimento che
chiude la porta, nel mondo cattolico, a un confronto sereno perché tante
questioni e prospettive sono accomunate indebitamente sotto l'etichetta
dispregiativa del gender.
Così, si butta via con l'acqua sporca il bambino di un patrimonio di pensiero
che aiuta a riconoscere e valorizzare pienamente nella società, ma anche nella
chiesa, le ricchezze del maschile e del femminile. Vuol dire non riuscire
comprendere fino in fondo l'immagine di Dio nel "maschio e femmina li
creò" di Genesi.
Se non sappiamo pensare il femminile al di là di costumi e
rappresentazioni stereotipate, per esempio, come comprendere l'esercizio della
maternità nell'economica, nella politica, nella scienza, al di là dell'atto di
generare fisicamente i figli? E lo stesso vale per il maschile. E oltre la
maternità e la paternità?
In che cosa consiste una
cultura cristiana dell'identità di genere? In altre parole, come la fede
cristiana fa discernere e vivere concretamente nel quotidiano la verità
dell'essere uomo e donna? Certo, questo vuol dire rompere relazioni di potere
che fa comodo mantenere.
Lo sa bene papa Francesco, quando pone il problema dell'accesso
delle donne a ruoli decisionali nella chiesa (cfr. Evangelii gaudium 104). Lo sanno anche meglio tante
teologhe, religiose e laiche, che ben conoscono questi temi e la cui voce trova
ancora poco spazio.
«La domanda sull'identità di uomini e donne si
colloca al crocevia tra natura e cultura, senza
«La domanda sull'identità di uomini e donne si colloca al crocevia
tra natura e cultura, senza riduzioni indebite e insostenibili al solo dato
della differenza biologica e genetica, senza restringimenti a letture statiche
dei "ruoli sociali"». Ciò significa smascherare false idee di natura,
risalenti a una filosofia esistenzialista e astorica, che legittimano la
marginalizzazione femminile anche in ambito religioso. Infatti, nei documenti
della chiesa «il soggetto umano è presentato in modo apparentemente neutro.
Oggi siamo più avvertiti del fatto che in realtà ogni teoria antropologica
occidentale nasce e si sviluppa intorno a un codice androcentrico, introno a un
maschile universalizzato e dichiarato neutro. La prospettiva di gender permette di decodificare l'implicito, di
criticare i concetti falsamente universali di persona, individuo, soggetto
ecclesiale, di svelare i meccanismi simbolici del maschile e del femminile
nella liturgia, nel dire Dio e l'uomo, nel pensare la rivelazione e la storia
della salvezza, nel definire la Chiesa (ad esempio le metafore femminili di
sposa e madre)»
Una delle parole che
ricorrono con maggiore frequenza nei discorsi legati alla sfera religiosa è
«verità».
Spesso la si usa come una
sorta di arma per porre fine a una controversia: la posizione diversa dalla
propria viene considerata illegittima «in nome della verità». Si squalificano
così l’interlocutore e le sue ragioni, di solito con il ricorso a qualche
documento magisteriale o alla parola di qualche alto prelato. Nei media, come in parecchi contesti ecclesiali, si incontrano
cattolici che si esprimono per citazioni, ripetendo solo quanto già affermato e
certificato da qualche testo «ufficiale».
Trovo che in questo modo
di fare ci sia un grosso problema, soprattutto quando si accompagna a un
atteggiamento polemico, aggressivo, di svalutazione degli altri. In nome della
verità, naturalmente.
Per la Chiesa cattolica è
necessario produrre dei documenti che presentino autorevolmente il suo
messaggio. Ciò non toglie che l’eccesso di tali documenti è una selva, dove non
si distingue quel che è necessario e irrinunciabile dal provvisorio. Non
dimentichiamo che nel corso della storia il magistero ha cambiato parere su
tante questioni.
Il rischio è presentare
il cristianesimo come qualcosa di pesante, statico, complicato e poco
accessibile. Inoltre, si perdono di vista le zone grigie, inevitabili quando si
passa dai principi generali alla loro applicazione nelle situazioni
particolari, come nel campo della bioetica. È invece necessario mantenere
aperti la riflessione e il confronto, perché non abbiamo in tasca le risposte
pronte a tutto.
C’è poi un altro aspetto,
più profondo. La verità non è la «somma dei documenti», un insieme di
affermazioni scritte. Per il cristiano, Gesù in persona è via, verità e vita.
Verità è vivere in Cristo, diventare Cristo aprendosi allo Spirito. I documenti
sono uno strumento di grande importanza che la Chiesa si dà, ma non un assoluto
o un fine. La verità prende corpo nell’uomo, in tutto l’uomo.
Anche Gandhi poneva al
centro della sua azione politica nonviolenta la verità; la definiva una ricerca
in cui l’autentica conoscenza si raggiunge nel pensiero, nelle parole e nelle
azioni. «La mia vita è il mio messaggio», diceva.
Come riconoscere questa
verità?
Ai tempi dei padri del
deserto, Abba Macario disse: «Se quando rimproveri qualcuno ti lasci muovere
dall’ira, soddisfi una tua passione». E un anziano chiese a un fratello:
«Quanti giorni hai trascorso senza dir male di tuo fratello, senza giudicare il
prossimo e senza far uscire dalle tue labbra una parola inutile?».
Col pretesto di difendere
Dio e la Chiesa, gli appelli alla verità all’insegna del conflitto e della
condanna sono in realtà un modo per imporre se stessi e gratificare il proprio
ego. È bello sentirsi paladini della verità contro qualcuno…«L’eucaristia ci
dice che la nostra religione è inutile senza il sacramento della misericordia».
Pur nella fermezza di fronte al male e all’ingiustizia, i segni della verità
sono l’umiltà, il lasciare spazio, il saper ascoltare. Come il profumo di un
fiore, va incontro a tutti. Ecco perché sono ormai convinto che non c’è verità
senza dialogo.
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