mercoledì 3 dicembre 2014

La famiglia e le nuove sfide pastorali Un Sinodo non Sinodale.


La famiglia e le nuove sfide pastorali
Un Sinodo non Sinodale.

Il mese di ottobre,è stato un periodo fibrillante di incontri,nel sinodo della chiesa cattolica romana. il Vescovo di Roma,Francesco,ha voluto che i vescovi in rappresentanza di tutto il mondo si ritrovassero , per discutere e proporre delle nuove linee pastorali in merito alla famiglia, divorziati e separati,coppie di fatto e  la dolente ( a loro giudizio)nota degli omosessuali.
Abbiamo assistito a giorni di discussione,ascoltando dai media e leggendo dai giornali,atteggiamenti di apertura e spinte in avanti,da parte di diversi vescovi,così come di interviste,che hanno mantenuto di fatto una chiusura e un tono,che fatico ancora a leggere come volontà di Dio.
Senza voler polemizzare,desidero più che altro,esporre il mio pensiero e le mie riflessioni,come cristiano e come vescovo.

La famiglia.
Stando a quando insistentemente,la chiesa cattolica romana,ama definire la famiglia in rapporto a quella di Nazareth,è sorprendente come i testi biblici,che parlano di Maria,Giuseppe e Gesù,ci dicono immediatamente due cose inconfutabili.
1.      Maria concepisce per diretto intervento di Dio,infatti noi crediamo all’azione dello Spirito Santo.
2.      Giuseppe,che inizialmente vuole ripudiarla,l’accetta come sposa,divenendo di fatto il Padre putativo,potremmo dire affidatario di Gesù.

Nel quadro di questa pericope evangelica,si descrive senza ombra di dubbio che la famiglia di Gesù,è una famiglia de facto e non de iure. In nessun altro passo,che parli di questa nuova famiglia si intravedono segni di una qualsiasi giurisprudenza,o qualsivoglia argomentazione morale e tantomeno,sono presenti atti cultuali o liturgici. Dio quando opera non ha bisogno di riconoscimenti,poiché ,nella fedeltà è il suo amore.
Per comprendere ancora più affondo l’dea che Gesù ha della famiglia,dobbiamo aspettare qualche anno e leggere alcune reazioni che Egli stesso ha, a proposito manifestato.

In Marco,3,31-35 leggiamo:
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. 32 Tutto
attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle
sono fuori e ti cercano». 33 Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei
fratelli?». 34 Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco
mia madre e i miei fratelli! 35 Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella
e madre».
La domanda sorge spontanea,perché Gesù risponde con tanta determinazione e quasi durezza.
La risposta meriterebbe,una certa articolazione esegetica,ma sintetizzando,possiamo dire con chiarezza che Gesù,introduce un nuovo modo di concepire la famiglia, l’elemento biologico sembra lasciare il posto a quello spirituale( chiunque compie la volontà di Dio ).
Anche in Matteo,12,46-50,troviamo la stessa situazione,così come in Luca8,18-21 e in Giovanni 2,12,seppur con una connotazione differente.
Questa novità sulla famiglia,non è da considerare secondaria a tutta l’opera della salvezza,perché l’idea fondante la famiglia,possiamo dire l’elemento sorgivo,si struttura attorno alla comunione del cuore e dello spirito. Prova ne è il passo di Luca 14,26
 Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere un mio discepolo".
La versione della CEI, ha edulcorato la traduzione del verbo greco Miseo con amare, quando in realtà la traduzione originaria è odiare,soprattutto nel contesto lucano. Questo per dire come la paura di mettere in bocca a Gesù parole non propriamente consone o negative sulla famiglia è stato molto forte,da parte degli studiosi della CEI. Ma al di la dell’aspetto esegetico,rimane inconfutabile che in Gesù la famiglia ,propriamente conosciuta  nel senso moderno, non trova un riferimento teologico, propriamente inteso. Va da se che qui non si vuole assolutamente destituire di fondamento sociologico e antropologico, la realtà della famiglia, perché rimane almeno in linea di principio psicologico ,la prima e fondamentale esperienza umana e socio-educativa. In sintesi i vangeli non si soffermano su temi analitici sulla famiglia, solo Paolo di Tarso, pone alcune questioni, che fanno già parte di un contesto storico-teologico, non deduttivo a livello scritturistico.

La sacramentalita’ del sacramento.
Molto spesso, si fa riferimento nel matrimonio, celebrato religiosamente, all’aspetto sacramentale. Anche in questo caso, la riflessione da parte della gerarchia ecclesiastica, presenta delle lacune intrinseche , tra vita di coppia e sacramento.
Lo stesso impianto dottrinale, della chiesa romana, si autodetermina in una fissità secolare, come valore assoluto, divenendo unico metro di misura.
La dottrina non è qualcosa di rigido e fissato una volta per sempre, ma conosce sviluppi e approfondimenti in relazione al tempo in cui ci si trova per esprimere l'annuncio dell'Evangelo a misura dell'epoca in cui ci si trova. c'è una comprensione del sacramento che a volte è slegata dalla realtà della vita matrimoniale e che risente di una visione ancora deficitaria della dimensione sessuale.
In primo luogo, i sacramenti non sono un aggiunta esteriore e posticcia a una realtà umana che sarebbe in sé carente e peccaminosa. I sacramenti, piuttosto, ci aiutano a comprendere e a raggiungere la pienezza della nostra umanità. E quel che caratterizza il matrimonio, rispetto ad altre forme di relazione umana, è proprio la dimensione sessuale, da non identificare riduttivamente con la genitalità.
Uomo e donna cercano nell'intimo una comunione di vita, di alleanza e di fedeltà con chi è altro, con chi è sessualmente differente. L'amore coniugale è questo ed è perciò sostanzialmente sessuale, ma è una sessualità che non si vive solo in camera da letto, ma in tutte i momenti della vita a due. La comprensione di questa realtà, all'interno del cattolicesimo, è ancora ostacolata da un sospetto nei confronti dell'affettività sessuale che ha radici antiche, come se fosse portatrice di un elemento intrinsecamente peccaminoso.
Ecco perché molti discorsi riguardanti i divorziati e le persone omosessuali ruotano, in modo eccessivo, attorno al sesso. Come se l'unione fisica dei corpi avesse bisogno di essere redenta dal matrimonio e dalla procreazione, perché altrimenti sarebbe un male.
Chi è sposato sa che l'apertura alla vita è una dimensione irrinunciabile della sessualità, ma non la esaurisce. Sarebbe come dire che due coniugi si amano solo quando intendono avere dei figli. Un amore coniugale che non passi anche per la corporeità avrebbe qualcosa di patologico, escludendo un aspetto primario dell'essere dell'altro.
Certo, l'esercizio fisico della sessualità corre il rischio dell'egoismo e richiede un apprendistato e una crescita umana che dura per tutta la vita. Ma questo lo vediamo già nel Vangelo. Mi sorprende, infatti, che per quel che si sa i lavori sinodali non si siano ancora soffermati su Matteo 5,27-28 che fa parte del discorso della montagna.
Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.
Prendiamo sul serio questa parola di Gesù, tanto quanto quelle sull'indissolubilità. L'adulterio, prima che nell'atto sessuale in sé, risiede nel cuore. Ecco perché ci sono persone formalmente sposate, conformi ai dettami della chiesa, che sono adultere e altre che, pur non essendo sposate, vivono una fedeltà.
Ma c'è altro, se ascoltiamo con radicalità questa parola di Gesù, chi può considerarsi escluso? Non è un fatto di durezza, ma di realismo: la nostra capacità di amare è limitata, è in cammino. Anche per chi è sposato e formalmente rispetta le norme canoniche, perché conta quel che avviene nel cuore. Il matrimonio ci indica una pienezza da raggiungere, che non esclude la presenza di elementi di positività e verità anche in altre unioni umane. Tutti siamo pellegrini. La mia perplessità nel dibattito sinodale, nasce da una lettura di approccio
"patologico" al matrimonio: come se il problema da risolvere fossero i divorzi e non ci sia invece da interrogarsi sulla comprensione, che la chiesa cattolica ha del matrimonio e sul modo di presentarla oggi. E' vero che ci sono dei fattori culturali e sociali che minano la definitività della scelta, ma proprio per questo è necessario innanzitutto ri-dire l'annuncio del matrimonio, più che trovare la soluzione di un problema. Posto che quest'ultimo è un discorso necessario, in quanto chiama in causa la sofferenza di molti, non si può pensare che tutto finisca lì.
Il vero problema è a monte (come la comunità cristiana pensa il matrimonio nella fede e accompagna ad esso) e non a valle (come la comunità cristiana si pone di fronte a separazioni, divorzi e nuove nozze). Quanti prelati, quanti cattolici spendono parole , e magari tuonano, sull'importanza della famiglia, sulla centralità della famiglia, sulla famiglia valore non negoziabile e poi, nei fatti, come la fede e la chiesa sostengono due persone nel loro cammino di sposi? Sì, con qualche corso e qualche predica. C'è una distanza forte tra l'importanza che la famiglia ha nei discorsi ecclesiali e la realtà della vita della chiesa.. Al più, ci si preoccupa di leggi, coppie di fatto e coppie omosessuali con un atteggiamento di polemica e difesa. Molto meno ci si preoccupa di cammini di umanità e di fede. Il sinodo poteva essere una grande occasione, riaprendo una riflessione sul matrimonio e non di chiuderla, limitandosi a ripetere il già detto.
L’indissolubilità, come limite invalicabile.( Card. Müller)
 Quanto meno, questa argomentazione la si può considerare, senza ombra di dubbio, proveniente da quegli ambienti di Curia interessati a salvaguardare una continuità su tutto. Rileggendo il testo
Troviamo, presenti due linee argomentative a partire dall'indissolubilità del matrimonio: una riguardante la possibilità di divorzio e seconde nozze in riferimento alla posizione della chiesa antica e del cristianesimo ortodosso (che risolverebbe in radice la questione dell'accesso ai sacramenti) e l'altra riguardante la possibilità di ammettere ai sacramenti il divorziato risposato pur considerando sempre in essere il primo matrimonio.
La prima concerne una serie di questioni esegetiche e storiche.
Il dato esegetico concerne l'interpretazione di Mt 5,32 e 19,9. Ci sarebbe anche il cosiddetto "privilegio paolino" di 1 Cor 7,12-17, ma si applica a una situazione particolare, non al matrimonio in sé.
Sui testi evangelici, Müller si limita a dire che "la Chiesa non può basare la sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche controverse". E' un'affermazione troppo sbrigativa: quelle che lui definisce ipotesi esegetiche, sono ammesse da un'altra tradizione ecclesiale. E' un po' leggero liquidarla come se niente fosse, visto che non  è mai stata oggetto di un vero e proprio discernimento nella chiesa cattolica. E se, invece, quest'altra tradizione avesse realizzato un ascolto della Parola di Dio su cui i cattolici hanno  sorvolato?
Dal punto di vista storico, Müller è altrettanto sbrigativo sulla chiesa antica e sui Padri. Su che cosa si basa? Ho fatto qualche ricerca. Gli studi in proposito mi sembrano quantitativamente scarsi .Ora, su un tema tanto importante, è sufficiente un singolo saggio accademico per considerare chiusa la questione? Esistono altre ricerche in proposito? Lo chiedo proprio perché sono non esperto e credo che ci voglia una base solida per prendere posizione.
Posto che si respinga totalmente la possibilità di divorzio e seconde nozze, si tratta di valutare se esistono condizioni per l'accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati civilmente. E' la seconda linea argomentativa. Müller passa in rassegna le possibilità prospettate dal dibattito teologico e le respinge.
La prima chiama in causa la coscienza. Scrive l'arcivescovo:
Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il Battesimo è incorporato, è tenuta a decidere.
In altre parole, le convinzioni di coscienza devono essere stabilite tramite un procedimento giudiziario. Ma è sostenibile? E' il Padre che vede il cuore, o un tribunale canonico? Com'è possibile stabilire con un giudizio ciò che è autenticamente presente nel nostro intimo?
Secondo argomento discusso:
Anche la dottrina dell’epichèia, secondo la quale una legge vale sì in termini generali, ma non sempre l’azione umana vi può corrispondere totalmente, non può essere applicata in questo caso, perché l’indissolubilità del matrimonio sacramentale è una norma di diritto divino, che non è dunque nella disponibilità autoritativa della Chiesa. Questa ha, tuttavia, il pieno potere — sulla linea del privilegio paolino — di chiarire quali condizioni devono essere soddisfatte prima che un matrimonio possa definirsi indissolubile secondo il senso attribuitogli da Gesù. Su questa base, la Chiesa ha stabilito gli impedimenti al matrimonio che sono motivo di nullità matrimoniale e ha messo a punto una dettagliata procedura processuale.

Anche qui, tutto si riduce a un fatto processuale. Però, qui Müller mi sembra compiere un errore argomentativo: il problema in oggetto è l'indissolubilità del matrimonio o la possibilità del divorziato risposato di accedere alla comunione sacramentale? Non è la stessa cosa. Sono due problemi differenti.
Forse, a chiarire il tutto, ci può aiutare il terzo argomento.
Un’ulteriore tendenza a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti è quella che invoca l’argomento della misericordia. Poiché Gesù stesso ha solidarizzato con i sofferenti donando loro il suo amore misericordioso, la misericordia sarebbe quindi un segno speciale dell’autentica sequela. Questo è vero, ma è un argomento debole in materia teologico-sacramentaria, anche perché tutto l’ordine sacramentale è esattamente opera della misericordia divina e non può essere revocato richiamandosi allo stesso principio che lo sostiene.
Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia.
Ecco, qui emerge quello che è il vero nodo: l'ordine sacramentale. Attenzione, a questo punto. Infatti, poco dopo, si legge: per l’intima natura dei sacramenti, l’ammissione a essi dei divorziati risposati non è possibile.
Allora, il vero problema, in questo ambito, non è l'indissolubilità del matrimonio, bensì la natura dei sacramenti. Non è cosa da poco: eppure, tutto l'articolo dedica molto spazio al tema dell'indissolubilità e poco spazio al tema dei sacramenti. C'è uno squilibrio su un aspetto decisivo.
Comunque, la motivazione della non ammissibilità ai sacramenti è data dal n. 84 dell'esortazione Familiaris consortio.
L’ammissione all’eucaristia non può tuttavia essere loro concessa. In relazione a questo viene addotto un duplice motivo: a) «il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’eucaristia»; b) «se si ammettessero queste persone all’eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio». Una riconciliazione mediante il sacramento della penitenza — che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico — può essere accordata solo sulla base del pentimento rispetto a quanto accaduto, e sulla disponibilità «a una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». Ciò comporta, in concreto, che quando la nuova unione non può essere sciolta per seri motivi — quali, ad esempio, l’educazione dei figli — entrambi i partner «assumono l’impegno di vivere in piena continenza».
La motivazione (b) è debole: dire che ammettere all'eucaristia un divorziato crea confusione sulla dottrina dell'indissolubilità equivale a dire che i fedeli nel popolo di Dio sono persone prive d'intelligenza e non in grado di capire. Le persone capiscono, se si dicono le cose nella chiarezza.
La motivazione vera è che i rapporti sessuali sono considerati un adulterio, perché in caso di continenza si ammette l'accesso all'eucaristia (e qui c'è una contraddizione: in questo caso non vale la confusione suscitata nei fedeli?).
E' questo un argomento sufficiente e insormontabile?
Matrimonio: una riflessione da aprire, non da chiudere
3. L'essenziale del matrimonio
Parlare di matrimonio in termini eminentemente dottrinali o giuridici non ne coglie in pieno la verità. Quando leggo o ascolto certi discorsi che vengono da uomini di chiesa mi viene da scuotere la testa. Si coglie che ci sono aspetti fondamentali che sfuggono. Non ci si sposa né si rimane insieme a motivo di una dottrina o del diritto canonico. Se si perde di vista questo assunto, quelli che sono degli strumenti che dovrebbero essere di aiuto, diventano un fine, producendo una comprensione squilibrata del matrimonio.
Sinceramente, devo dire di aver avuto questa impressione nella lettura dell'intervento dell'arcivescovo Müller su cui ho iniziato  da tempo a riflettere. Qui però siamo alle prese con qualcosa di vitale per me e per tante persone, qualcosa che ha un profondo significato di fede. E' la via su cui, con i miei errori e le mie fragilità, ho giocato la mia vita, è un aspetto sostanziale della mia sequela del Signore. E, se sono profondamente convinto che c'è qualcosa che non va nel modo in cui se ne parla, lo devo dire. Per quel poco che vale la mia povera voce, lo devo dire, cercando di portare buone ragioni nella misura in cui ne sono capace. Non è un fatto di polemica, ma di onestà come uomo, cristiano e vescovo.
 Tutto l'intervento di Müller è imperniato sulla dottrina dell'indissolubilità del matrimonio, come se fosse il centro della fede cristiana su questo sacramento. Detto così, si riduce il matrimonio a un vincolo, a un comando amministrato dalla chiesa e dai suoi tribunali che ne possono eventualmente stabilire la nullità. E' come se il sacramento fosse qualcosa che si sovrappone all'umano e lo vincola.  Una visione del genere è povera. Il sacramento, piuttosto, abita l'umano per portarlo a realizzarsi in pienezza. Il sacramento umanizza, alimenta la nostra umanità per giungere alla statura di Cristo. Però, senza mai togliere la nostra libertà che è anche libertà di rifiutare il dono e di peccare.
L'umanità abitata dal sacramento del matrimonio è l'amore umano, né più né meno. Un amore che inizia con l'attrazione e il desiderio; diventa scoperta, conoscenza, condivisione e il desiderio assume un carattere di totalità. E' il desiderio di essere una sola carne, di un amore che non finisce. E' l'essere a immagine e somiglianza di Dio, inscritto dentro di noi. Genesi 3,24 non dice un comando di Dio, dice come noi siamo. L'indissolubilità non è un decreto arbitrario, è intrinseca all'amore. Indissolubile è l'amore di Dio per il suo popolo, di Cristo per la sua chiesa, del Padre per ciascuno di noi. Di qui il nostro poter amare: siamo capaci di amare perché Dio è amore.
Questo credono, o quanto meno intuiscono, due sposi. Se manca, almeno in minima misura, questa consapevolezza, sono convinto anch'io che il matrimonio religioso sia nullo. Gli sposi hanno fiducia che il loro amarsi viene da Dio, che continua la storia iniziata con il battesimo (di cui si fa memoria), che ha come vertice e alimento l'eucaristia, segno dell'amore di Gesù che arriva fino alla croce. Sposarsi è avere fiducia che il proprio amore può durare tutta la vita, perché non siamo soli, Dio è presente nella storia d'amore umana, la benedice. Ecco l'indissolubilità: è una promessa del Signore in cui si pone fiducia, non una regola. La chiesa è la comunità che accompagna e sostiene questo amore, questa fede. Non può essere presente solo per esercitare un giudizio.
4. Peccato e misericordia
C'è però il dramma della libertà che può prendere la via del peccato: nell'amare possiamo fallire, essere infedeli, indurire il nostro cuore. In molti modi, non solo sessualmente. Questo può avvenire anche a persone che si sono sposate con fede. Nessuno è esente a priori. Quando avviene, è un fatto grave e c'è una componente di peccato, d'infedeltà, se il matrimonio era reale e non solo facciata.
E' un peccato che la chiesa può perdonare? La missione affidata da Gesù agli apostoli non è proprio il perdono dei peccati?
Qui bisognerebbe distinguere da una rottura del matrimonio che nasce là dove uno degli sposi, con leggerezza, "passa ad altro" seguendo una pulsione egoistica e disinteressandosi del coniuge (ma, allora, mancava già in partenza la consapevolezza che rende valido il matrimonio) da un deterioramento dei rapporti che nasce da limiti e fragilità delle persone implicate, con un carico di fatica e sofferenza per entrambi.
In quest'ultima situazione, il non accesso all'eucaristia dipende dallo stringere una nuova unione affettiva là dove c'è un'intimità sessuale e non continenza.
Questo costituirebbe un peccato imperdonabile? Ma come: la chiesa può perdonare un'omicida, può perdonare un pedofilo, può perdonare un prete che rinuncia al ministero, ma non può perdonare un divorziato che vive un'altra storia perché ha dei rapporti sessuali? La misericordia lì non arriva?
Si dice: ah, ma ci vuole il pentimento. Se no, è falsa misericordia, senza giustizia, che incoraggia il peccato, perché non lo tratta seriamente e lo svuota della sua gravità.
Prima osservazione: Dio nella Bibbia non agisce così. Il suo perdono precede la conversione e la suscita, non è una conseguenza della conversione. Lo vediamo in Osea. Lo vediamo in Gesù, con l'adultera, per esempio (Gv 8,1-11). E' vero che le dice di non peccare più, ma intanto la perdona. Non aspetta di verificare che si sia convertita, la perdona prima, in anticipo! Gesù non vuole l'adulterio, lo condanna, ma con il peccatore esercita grande misericordia ed è così che si pongono le premesse della conversione.
Si dice: sì, ma la chiesa accoglie i divorziati risposati. L'esclusione dall'eucaristia non è una punizione. E' che non si può, è per far capire che sono in una situazione di peccato; se non vivono in continenza, vuol dire che non c'è pentimento, e la chiesa per essere nella verità non può ammetterli all'eucarestia.
E' falso! Chi conosce persone divorziate che hanno fatto un cammino interiore serio, sa che il pentimento c'è, che la consapevolezza c'è. E con sofferenza, non con noncuranza. Ma pentirsi non può voler dire far rinascere artificialmente una convivenza che non c'è più e distruggere di colpo un rapporto che si è creato, quando è profondo e consolidato. Il punto è che qui c'è un'enfatizzazione del peccato sessuale che è una brutta eredità che il cattolicesimo si porta ancora dietro.
Davvero, l'omicidio può essere perdonato, ma se c'è una nuova unione di cui fa parte l'esercizio dell'affettività sessuale (non una sessualità disordinata ed egoistica) non si può dare il perdono? Eppure, ovunque si sposano in chiesa persone che prima sono state conviventi e hanno avuto rapporti sessuali e non sono affatto pentite di questo. E succede ovunque. Però, siccome si sposano, si "regolarizzano".
Ecco il problema: alla radice del divieto dell'eucaristia non c'è l'ordine sacramentale, l'intima essenza dei sacramenti. I sacramenti non sono riservati ai puri e ai perfetti: accompagnano il nostro cammino di conversione, ci sostengono. La questione vera non è di teologia dei sacramenti, secondo me, è di teologia morale e prima ancora di antropologia: la sessualità.
Sulla sessualità pesa ancora un'impostazione giuridica che deriva da una visione peccaminosa: se è dentro il matrimonio ed è aperta alla procreazione è lecita, se no c'è peccato. Semplifico, ma stringendo la sostanza è questa.
La sessualità è un cammino, per gli sposati come per i celibi, un esercitarsi nell'umanità e nell'amore in cui è sempre presente la zizzania della nostra insufficienza. Farla rientrare in un dualismo lecito/non lecito è falsarla, è parlare di qualcosa che non è realmente la sessualità. E far dipendere da questo l'accesso all'eucaristia, secondo me, deriva da questa concezione inesatta.
Dire questo non è non credere all'indissolubilità del matrimonio. Neppure è negare il peccato e giustificare ogni comportamento. Penso sempre a persone che fanno un cammino serio di penitenza, di fede, di preghiera. Quello che intendo è dare la possibilità di continuare un cammino di vita cristiana di cui l'eucaristia è parte essenziale, pur con la ferita del matrimonio che si è celebrato. Le ferite non si possono cancellare, ma possono curare e guarire. Ci può essere vita anche dopo la ferita. Non è questa la via mostrataci da Gesù, la via su cui seguirlo come chiesa?
Ecco perché vorrei si prendesse in considerazione questa prospettiva nel guardare a una realtà del genere. E' la prospettiva che ci fa vedere come praticabile una via, piuttosto che un'altra, e io ho voluto suggerire una prospettiva che so non essere soltanto mia.

 Il Gender, Un accenno, alla questione affrontata a livello areo nel Sinodo.
Vescovi, teologi, mezzi di comunicazione sembrano gareggiare nel denunciare il pericolo che viene dalla teoria del gender, la quale vorrebbe cancellare la differenza tra uomo e donna, e con essa distruggere matrimonio, famiglia e ruoli genitoriali.
Il gender appare come la nuova eresia che ha conquistato politici e intellettuali, assediando la chiesa e il diritto naturale in nome del matrimonio gay. Dalla legge contro l'omofobia ai registri delle coppie di fatto, all'educazione sessuale nelle scuole, tutto sembra guidato da un grande complotto gender, portato avanti dal movimento LGBT, come se fosse una sorta di Spetro potente e ramificata. Questa narrazione è molto diffusa nel discorso pubblico cattolico. Evoca un pericolo e un nemico contro cui vigilare e mobilitarsi.
Il fatto è che forse le cose non stanno proprio così.
Cominciamo dal "nemico". Si parla ormai della teoria gender come alcuni decenni fa si parlava del comunismo. Ma dove sono i Marx e i Lenin del gender? Quali sono il Manifesto e il Capitale di questa ideologia? Come si chiama e dove ha sede il suo partito? Da nessuna parte, in tutti i testi e discorsi cattolici sul gender, si trova una risposta a queste domande, perché in realtà "la" teoria del gender semplicemente non esiste.
Vent'anni fa, quando frequentavo l'università, nei miei corsi m'imbattei negli "studi di genere" ( nel mondo accademico anglosassone), una denominazione che raccoglie ricerche filosofiche, sociologiche e psicologiche che studiavano il femminile e successivamente il maschile. Queste riflessioni nascevano dalla presa di consapevolezza che l'immagine della donna, e il suo posto nella società, erano determinati da una cultura a predominanza maschile la quale perpetuava un'idea d'inferiorità e una pratica di subordinazione della donna.
L'obiettivo era la comprensione dell'identità e della differenza femminile, nella misura in cui non dipendono dal dato biologico, ma da un'elaborazione simbolica e culturale. Un esempio banale e immediato è l'idea, per lungo tempo universalmente accettata, dell'inferiorità intellettuale della donna escludendola così dalla vita politica e dagli studi. Sulla stessa linea, i gender studies hanno inevitabilmente cominciato a occuparsi delle omosessualità, le quali sollevano questioni particolari.
Il punto è che le teorie formulate in proposito sono tante e molto diverse. Le rappresentazioni a cui ho accennato sono perciò forzature arbitrarie, perché non rispecchiano la realtà. Solo le teorie più radicali postulano un'insignificanza della differenza biologica e più a monte antropologica, con i rischi di destabilizzazione sociale e di disintegrazione dell'identità dell'umano denunciati dal magistero. È un fraintendimento che chiude la porta, nel mondo cattolico, a un confronto sereno perché tante questioni e prospettive sono accomunate indebitamente sotto l'etichetta dispregiativa del gender. Così, si butta via con l'acqua sporca il bambino di un patrimonio di pensiero che aiuta a riconoscere e valorizzare pienamente nella società, ma anche nella chiesa, le ricchezze del maschile e del femminile. Vuol dire non riuscire comprendere fino in fondo l'immagine di Dio nel "maschio e femmina li creò" di Genesi.
Se non sappiamo pensare il femminile al di là di costumi e rappresentazioni stereotipate, per esempio, come comprendere l'esercizio della maternità nell'economica, nella politica, nella scienza, al di là dell'atto di generare fisicamente i figli? E lo stesso vale per il maschile. E oltre la maternità e la paternità?
 In che cosa consiste una cultura cristiana dell'identità di genere? In altre parole, come la fede cristiana fa discernere e vivere concretamente nel quotidiano la verità dell'essere uomo e donna? Certo, questo vuol dire rompere relazioni di potere che fa comodo mantenere.
Lo sa bene papa Francesco, quando pone il problema dell'accesso delle donne a ruoli decisionali nella chiesa (cfr. Evangelii gaudium 104). Lo sanno anche meglio tante teologhe, religiose e laiche, che ben conoscono questi temi e la cui voce trova ancora poco spazio.
«La domanda sull'identità di uomini e donne si colloca al crocevia tra natura e cultura, senza 

«La domanda sull'identità di uomini e donne si colloca al crocevia tra natura e cultura, senza riduzioni indebite e insostenibili al solo dato della differenza biologica e genetica, senza restringimenti a letture statiche dei "ruoli sociali"». Ciò significa smascherare false idee di natura, risalenti a una filosofia esistenzialista e astorica, che legittimano la marginalizzazione femminile anche in ambito religioso. Infatti, nei documenti della chiesa «il soggetto umano è presentato in modo apparentemente neutro. Oggi siamo più avvertiti del fatto che in realtà ogni teoria antropologica occidentale nasce e si sviluppa intorno a un codice androcentrico, introno a un maschile universalizzato e dichiarato neutro. La prospettiva di gender permette di decodificare l'implicito, di criticare i concetti falsamente universali di persona, individuo, soggetto ecclesiale, di svelare i meccanismi simbolici del maschile e del femminile nella liturgia, nel dire Dio e l'uomo, nel pensare la rivelazione e la storia della salvezza, nel definire la Chiesa (ad esempio le metafore femminili di sposa e madre)»
Una delle parole che ricorrono con maggiore frequenza nei discorsi legati alla sfera religiosa è «verità».
Spesso la si usa come una sorta di arma per porre fine a una controversia: la posizione diversa dalla propria viene considerata illegittima «in nome della verità». Si squalificano così l’interlocutore e le sue ragioni, di solito con il ricorso a qualche documento magisteriale o alla parola di qualche alto prelato. Nei media, come in parecchi contesti ecclesiali, si incontrano cattolici che si esprimono per citazioni, ripetendo solo quanto già affermato e certificato da qualche testo «ufficiale».
Trovo che in questo modo di fare ci sia un grosso problema, soprattutto quando si accompagna a un atteggiamento polemico, aggressivo, di svalutazione degli altri. In nome della verità, naturalmente.
Per la Chiesa cattolica è necessario produrre dei documenti che presentino autorevolmente il suo messaggio. Ciò non toglie che l’eccesso di tali documenti è una selva, dove non si distingue quel che è necessario e irrinunciabile dal provvisorio. Non dimentichiamo che nel corso della storia il magistero ha cambiato parere su tante questioni.
Il rischio è presentare il cristianesimo come qualcosa di pesante, statico, complicato e poco accessibile. Inoltre, si perdono di vista le zone grigie, inevitabili quando si passa dai principi generali alla loro applicazione nelle situazioni particolari, come nel campo della bioetica. È invece necessario mantenere aperti la riflessione e il confronto, perché non abbiamo in tasca le risposte pronte a tutto.
C’è poi un altro aspetto, più profondo. La verità non è la «somma dei documenti», un insieme di affermazioni scritte. Per il cristiano, Gesù in persona è via, verità e vita. Verità è vivere in Cristo, diventare Cristo aprendosi allo Spirito. I documenti sono uno strumento di grande importanza che la Chiesa si dà, ma non un assoluto o un fine. La verità prende corpo nell’uomo, in tutto l’uomo.
Anche Gandhi poneva al centro della sua azione politica nonviolenta la verità; la definiva una ricerca in cui l’autentica conoscenza si raggiunge nel pensiero, nelle parole e nelle azioni. «La mia vita è il mio messaggio», diceva.
Come riconoscere questa verità?
Ai tempi dei padri del deserto, Abba Macario disse: «Se quando rimproveri qualcuno ti lasci muovere dall’ira, soddisfi una tua passione». E un anziano chiese a un fratello: «Quanti giorni hai trascorso senza dir male di tuo fratello, senza giudicare il prossimo e senza far uscire dalle tue labbra una parola inutile?».
Col pretesto di difendere Dio e la Chiesa, gli appelli alla verità all’insegna del conflitto e della condanna sono in realtà un modo per imporre se stessi e gratificare il proprio ego. È bello sentirsi paladini della verità contro qualcuno…«L’eucaristia ci dice che la nostra religione è inutile senza il sacramento della misericordia». Pur nella fermezza di fronte al male e all’ingiustizia, i segni della verità sono l’umiltà, il lasciare spazio, il saper ascoltare. Come il profumo di un fiore, va incontro a tutti. Ecco perché sono ormai convinto che non c’è verità senza dialogo.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.