Il testo scelto per
la riflessione è il Vangelo proclamato nella messa del giorno di Pasqua.
nella veglia pasquale ci sono gli annunci tradizionali della Pasqua,
con angeli e parole; nella messa del giorno, invece, c’è il testo di cui
vedremo il senso (Gv 20,1-18); un brano inquietante, perché il Risorto
non vi compare.
In questo testo ciò che si vede della
risurrezione è una tomba vuota. L’idea è che, nella storia, della
resurrezione si vede solo il “buco”, l’assenza che crea. Nella vita
quotidiana l’esperienza della risurrezione non è immediatamente
vittoriosa, risolutiva, chiarificatrice, capace di dare risposte e
direzioni subito chiare. La nostra esperienza quotidiana della
risurrezione è una tomba vuota, un cadavere perduto. Non c’è cadavere,
dunque non c’è più la morte, ma non c’è nemmeno il Risorto.
Invece di leggere solo i nove versetti
che stanno nella liturgia, leggeremo anche il seguito, che è
l’apparizione a Maria di Magdala, e vedremo il ruolo di questa donna
nella risurrezione.
Nel giorno dopo il sabato, Maria di
Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e
vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò
da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse
loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove
l’hanno posto!". Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e
si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro
discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro
che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il
sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende,
ma piegato in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro
discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non
avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva
risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a
casa.
Maria invece stava all’esterno
vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il
sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte
del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed
essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato
via il mio Signore e non so dove lo hanno posto". Detto questo, si voltò
indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù.
Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che
fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l’hai portato via
tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse:
"Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico:
"Rabbunì!", che significa: Maestro! Gesù le disse: "Non mi trattenere,
perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli e dì
loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria
di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il
Signore" e anche ciò che le aveva detto.
(Giovanni 20, 1-18)
C’è un’alta frequenza, nei primi nove versetti, del verbo vedere:
tutti vedono, e non si capisce cosa. Vedono la pietra smossa, il
sepolcro vuoto, le bende, ma non vedono quello che conta: non vedono
Gesù, né il suo cadavere, né lui vivo.
Altri verbi ricorrenti in questo testo sono quelli di urgenza: recarsi di buon mattino, correre, correre insieme, correre veloce.
Il tono generale è quello dell’urgenza del vedere, ma ciò che si vede è
sempre un sepolcro. La morte si vede benissimo, tutti vedono la
crocifissione e riconoscono sulla croce Gesù, il figlio del falegname,
quello che hanno visto per le strade: non c’è possibilità di errore.
Il Risorto non si vede o si vedono
angeli, e se lo si vede non lo si riconosce: i due di Emmaus non lo
riconoscono, Tommaso neppure, i discepoli hanno paura, Gesù appare sul
lago e loro non sanno chi è.
Prima riflessione: come funziona una
fede di cui l’unica cosa riconoscibile immediatamente è la croce e di
cui della risurrezione si vedono solo e sempre i segni negativi, la
tomba vuota e la mancanza di un cadavere? Concretamente, cosa vuol dire
questo nell’esperienza che facciamo di interpretare la nostra vita alla
luce della fede? Cosa vuol dire avere fede guardando la propria vita?
Un esempio: vedere soluzioni facili,
soluzioni per tutto, in genere è un pessimo segnale, perché dalla loro
parte starebbero la risurrezione e dunque la tomba vuota, l’ambiguità
del riconoscimento, ciò che non si riconosce mai in modo immediato.
C’è un solo modo in cui il Risorto
viene riconosciuto ed è quando lui parla dicendo: “Pace a voi” e quando
dice a Maria: “Maria!” O afferma: “Sono proprio io!” (Lc 24, 39). Sotto
la parola di Gesù, il Risorto è riconosciuto.
Oppure, per dirla più semplicemente,
quando i cristiani guardano alla storia, vedono lo stesso disastro che è
sotto gli occhi di tutti gli esseri umani: le stesse afflizioni, le
stesse fatiche, lo stesso caos, in grande le guerre e in piccolo i
fallimenti della propria vita. Solo sotto la parola del Risorto questo
disastro può essere riconosciuto come tempo di salvezza.
Questo è il motivo per cui un credente
non può non leggere la Scrittura. Non per un motivo legale. E’ libero
di non leggerla; ma se non la legge continua a vedere lo stesso disastro
che vedono tutti, non vede altro che tombe vuote, ferite aperte,
fantasmi che non si sa chi siano. Non si deve leggere la Bibbia perché è
un dovere, ma perché la parola del Risorto, la Parola di Dio, è l’unica
possibilità che abbiamo per riconoscere i segni della risurrezione.
Tra l’altro questo ci fa ragionare
sulle differenze tra credenti e non credenti. Le tombe vuote, le ferite
aperte della propria e dell’altrui vita, sono capaci di vederle i
credenti e i non credenti. Il problema è se di fronte alla tomba vuota
ciò che uno sa pensare è che è stato rubato un cadavere oppure che c’è
un Risorto: questa è la differenza.
E vedere il segno della risurrezione è
possibile solo sotto la parola di Gesù. Almeno, secondo i racconti
della risurrezione, non c’è altro modo: se Gesù non parla, nessuno lo
riconosce.
In qualche modo mi pare di poter dire
che il tempo della storia in cui stiamo è esattamente questo intervallo
tra la morte – le continue morti della storia personale e collettiva,
che si riconoscono, si vedono, si capiscono bene, e se ne comprende
tutta la sofferenza, propria e altrui – e il riconoscimento definitivo
del Risorto, quando vedremo Dio faccia a faccia. Questo è un lungo tempo
di tombe vuote.
Non abbiamo più cadaveri, perché siamo
oltre al semplice morire – Gesù è già risuscitato -, ma non abbiamo
ancora l’automatico riconoscimento che la risurrezione sia semplicemente
tutto in tutti. Siamo in questo tempo, dove ci è chiesta la fatica del
discernimento.
Come vedremo (e questa è una tematica
dell’evangelista Giovanni) i discepoli maschi regolarmente si confondono
su questa questione. Cosa c’è da fare di fronte alle tombe vuote? Essi
fanno sempre ciò che non è da fare. Le donne invece, nel Vangelo di
Giovanni, fanno una figura nettamente migliore.
La conclusione è che i discepoli
tornano a casa, mentre Maria sta di fronte al sepolcro e piange: rimane
lì, e dunque lei vedrà gli angeli e il Risorto. Infatti il ruolo che
l’evangelista Giovanni attribuisce alle donne è di essere le uniche che
estorcono alla storia un riconoscimento, che la costringono a parlare
del Risorto; è lo stesso ruolo che l’evangelista Luca attribuisce a
Maria, la madre di Gesù. Il “restare” della Maddalena in Giovanni è
analogo al “serbare le cose nel suo cuore” della Vergine in Luca (Cf Lc
2,19).
Questo è il ruolo dei credenti:
costringere la storia a mandare angeli di fronte a una tomba vuota
perché parlino del Risorto, cercare la parola del Risorto che consenta
di vedere e credere.
Nel giorno dopo il sabato... (v.1)
Per noi questa espressione è
soprattutto un dato cronologico: ci fa pensare che Gesù è stato ucciso
il venerdì, è stato sepolto il sabato e poi è risuscitato di domenica.
Inoltre si racconta che c’era un problema per seppellire Gesù, perché
era Pasqua, festa ebraica celebrata di sabato: Gesù risorge il giorno
seguente e su questo si fonda il fatto che i cristiani festeggiano la
domenica, non il sabato.
Queste considerazioni sono servite a
chi doveva decidere il giorno festivo: hanno deciso che era la domenica,
quindi non ci sarebbe per noi più niente su cui meditare. Ma forse è
possibile un’altra riflessione: nel suo Vangelo l’evangelista Giovanni
ha una visione di totale globalità sulla storia, dalla creazione
all’Apocalisse, e nel prologo usa lo stesso schema del racconto di
creazione. La creazione avviene in sette giorni: prima sono create le
cose, la luce, il giorno e la notte, le acque, la terra, gli animali, le
piante, i fiori, poi l’uomo. Nell’uomo c’è il soffio di vita di Dio e
il settimo giorno, che è il sabato, Dio si riposa. Nel giorno dopo il
sabato c’è la risurrezione.
La creazione è tutta compiuta e chiunque vede le piante, le cose , gli animali, gli esseri umani.
Poi bisogna avere un po’ di cuore per
vedere il soffio di Dio in noi, essere umani; bisogna già andare un
giorno avanti per riconoscere che gli essere umani , oltre ad essere
muscoli, ossa, istinto, psiche, siano anche qualcosa che non si vede
immediatamente. Poi bisogna andare ancora un giorno avanti per arrivare
al sabato, il giorno del Signore, e avere ancora un po’ più di anima per
scoprire che c’è un riposo di Dio.
Il “giorno dopo il sabato” è quello in
cui si hanno occhi per vedere la resurrezione che sta proprio dopo la
totalità di questo quadro cosmico, di ciò che è previsto o prevedibile
della natura, delle cose, della storia. Anche di una storia non proprio
rozza, in cui pure è presente il soffio di Dio, del sabato. In una
storia che ha una sua completezza, la resurrezione avviene dopo il
sabato, avviene oltre. Oltre la totalità della storia si fa l’esperienza
del Risorto. La morte sta tutta dalla parte della storia, in cui è
immersa: tute le esperienze di croce stanno dentro i giorni della
settimana.
L’esperienza della resurrezione sta
nel giorno dopo il sabato, un passo più in là della storia e del tempo
che ci è dato di riconoscere per natura.
Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio (v.1).
La motivazione per cui Maria va al
sepolcro è concreta. Gesù era morto la sera della Parasceve, vigilia
della Pasqua, e nella festività ebraica non ci si poteva contaminare
toccando dei cadaveri; dunque al Maestro morto non era stata riservata
la pietà consueta per tutti i cadaveri. cioè l’unzione e la preparazione
del corpo per la sepoltura: era stato deposto in fretta. Nel giorno
dopo la festa, Maria, secondo l’evangelista Giovani, - le donne secondo
gli evangelisti Luca e Matteo, - va al sepolcro per compiere questa
opera: per ungere il corpo di Gesù e prepararlo per la sepoltura. Ma non
trova il corpo di Gesù. Il cadavere non c’era più. Non è stato
preparato per la sepoltura, non c’è sepoltura, perchè colui che era
morto non è più morto.
Per dirla concretamente, Maria è una
donna di buona volontà che fa le cose per bene, anche quelle gratuite,
perché nessuno la obbligava ad occuparsi di un cadavere già deposto; fa
una cosa in più e con una certa urgenza, di buon mattino, quando era
ancora buio. Ciò che si trova di fronte non è la soddisfazione di
un’opera ben compiuta, ma un sepolcro vuoto: finirà per mettersi a
piangere.
Questo dovrebbe darci una buona
indicazione su quanto poco siano logici gli esiti del cristianesimo e
della fede: ragionando sugli esiti – dire che ho creduto, ho fatto, e
adesso tiro una riga e faccio le somme – è un sistema che funziona
malissimo, perché gli esiti della fede sono sempre altrove.
Maria piangerà per un cadavere
scomparso, ma l’esito reale è che incontrerà il Signore vivo. C’è un
rovesciamento radicale: quello che si aspettava come buon esito di ciò
che era andata a fare di buon mattino al sepolcro non c’è, fino a che
lei piange; poi però le si presenta tutta un’altra novità che non si
attendeva dalla storia e neppure sapeva desiderare. In mezzo a questo,
c’è il suo fare comunque quello che le spetta e la parola del Risorto
che dice: “Maria!”. Solo allora, lei può riconoscerlo.
Maria vuole compiere un’opera di pietà: si prende cure della vita anche quando non serve più.
Curarsi di un cadavere è l’opera di pietà nobile di chi sa già che non è l’efficienza l’unico criterio.
Ma questo non basta: ci sarà un risultato ma non quello atteso; si verificherà dunque uno spostamento, uno sradicamento.
Gli esiti del Cristianesimo si
riconoscono a partire dalla Parola di Dio e, se si vuole un criterio
generale di applicazione concreta, si può stare tranquilli che, quando
sembra assolutamente ragionevole un tipo di finale, di certo non sarà
quello. Questo testo è segnato da una strana urgenza: quella di Maria
che va al sepolcro, quella di Pietro e Giovanni che corrono. C’è tutto
uno strano senso di fretta: noi abbiamo fretta ed è giusto che sia così,
perché abbiamo solo un tempo, non un altro. Abbiamo un tempo
determinato, breve o lungo che sia, per riconoscere il Risorto. Solo Dio
ha tutto il tempo. C’è una fretta nella necessità del riconoscere la
resurrezione, altrimenti resteremo fermi alla croce.
E cosa vede Maria? Che la pietra è
stata ribaltata dal sepolcro. La storia è una porta: ci aspettiamo che
sia sbarrata da una grossa pietra ma, in genere, la difficoltà che ci
aspettiamo non c’è. Però, passati oltre, c’è una tomba vuota. Rischiamo
di trascorrere la nostra intera esistenza affannati dal pensiero di come
potremo rotolare la pietra dalla porta che è la vita; poi vediamo che
la pietra è già rotolata via e quello che c’è dietro non è il cadavere
che ci aspettiamo, ma una tomba vuota: quella che diventerà il luogo
dove si potrà scoprire il Risorto.
Corse allora e andò da Simon Pietro
e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno
portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!"
Il primo esito di tutta la buona
volontà di Maria è di non sapere. Quando, come risultato di una buona
dose di impegno, la conclusione è che non sapete, di solito va bene! Non
è tranquillizzante, però pare che funzioni così; è un archetipo della
Scrittura. Ogni volta che qualcuno si muove sulla fede, come risultato
si ritrova il non sapere. Pensate alla narrazione di Matteo circa i Magi
che chiedono a Erode: “Dov’ è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo
visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo» (Mt 2,2). Hanno
riconosciuto un segno, hanno avuto il coraggio di partire su quel
segno, per motivi puri, per adorarlo, con buona disposizione d’animo. e
il risultato è: Dov’è, dunque?
Il risultato è una domanda. Chi si
mette in cammino verso il Signore di solito ha questo come risultato. Se
ha delle risposte, dovrebbe cominciare a preoccuparsi.
La Maddalena dice: «Hanno portato via
il Signore dal sepolcro». È la spiegazione più semplice: un cadavere non
se ne va da solo, dunque qualcuno l’ha portato via e «non sappiamo dove
l’hanno posto».
Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. (v. 3)
Nel Vangelo di Giovanni le figure di
Pietro e Giovanni sono anche simboliche: Pietro è figura della fede,
Giovanni dell’amore. La fede si sbaglia e tradisce, è fragile — e noi lo
sappiamo bene — ma ha un ruolo di supremazia (Pietro è il primo fra gli
apostoli). Nel tempo della storia la fede governa, ma la sua
caratteristica fondamentale è che si sbaglia, tradisce e in genere è un
più lenta: arriva dopo. come in questo caso. Normalmente l’amore si
sbaglia meno, tradisce anche meno, ma deve sottomettersi alla supremazia
della fede. Nel cristianesimo non si ama qualsiasi cosa, ma si ama il
Signore Gesù, e c’è una sottomissione dell’amore che aspetta ad entrare.
La fede valuta, interroga, guarda le bende, il sudario, fa l’analisi,
organizza. si fa le domande, studia. L’amore, di solito, si butta. Il
capitolo seguente di questo Vangelo racconta l’apparizione di Gesù sul
lago di Tiberiade: Pietro e Giovanni, sempre loro due, sono sulla barca,
ma non lo riconoscono. Quando Giovanni dice: “È il Signore!”, Pietro si
tuffa (Cf Gv 21, 4-7): l’amore riconosce e la fede si muove. Ora noi
dovremmo imparare a fare i conti, da adulti, con queste due componenti
della nostra esistenza di fede: la fede e l’amore non camminano quasi
mai insieme, perché solo Gesù cresce in età, sapienza e grazia davanti a
Dio e agli uomini; noi cresciamo un po’ più disorganici: l’amore corre
avanti, la fede resta indietro, poi uno aspetta l’altro. La fede ha da
chiedere, da studiare, da farsi mille domande. da capire, da governare,
da decidere (e non sempre bene, come mostra Pietro: la fede a volte
tradisce, rinnega). L’amore a volte corre avanti o corre indietro, non
sa bene; riconosce, ma poi non si muove; si entusiasma, ma poi non sa
dove andare; non governa. Sotto la croce c’è Giovanni, c’è l’amore.
Pietro ha tradito. Ma quando Gesù se ne va, Pietro è il primo tra gli
apostoli. Dovremmo forse metterci un po’ più quietamente iii questa
dinamica interna della nostra fede, nell’esperienza di avere queste due
componenti che, come ben si vede qui. non corrono insieme, che devono
reciprocamente aspettarsi e trovarsi, e sono entrambe necessarie.
Correvano insieme tutti e due ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. (v. 4)
La fede ha gambe. ma l’amore ha ali.
Ci sono esperienze nella nostra esistenza in cui uno butta avanti il
cuore, perché altrimenti non proseguirebbe, non avrebbe motivi
sufficienti, ma è altrettanto vero che se poi questo buttare avanti il
cuore non viene raggiunto dalle gambe della fede, dal domandarsi, dal
comprendere, dal rafforzarsi, dallo studiare, dall’ indagare,
dall’analizzare, questo gesto si perde, in qualche modo si scompensa.
Chinatosi, vide le bende per terra,
ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò
nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudano, che gli era stato
posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a
parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al
sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la
Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. (vv. 5-9)
Questo è veramente bellissimo, perché
Giovanni vede esattamente ciò che aveva visto Pietro: un sepolcro vuoto,
le bende per terra, il sudano piegato... né più, né meno. “Vide e
credette”: che cosa? Qualcuno dice: che era risorto. Il versetto
seguente dice: “non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che
egli cioè doveva risuscitare dai morti”. Dunque non è questo che
Giovanni ha creduto, perché non l’aveva capito!
Il punto è che l’amore vede le stesse
cose della fede e della mante ma, a differenza della fede, crede a dei
contenuti: si fida in qualche modo, si sbilancia e dunque “vede e
crede”, pur non avendocompreso cosa dicevano le Scritture. Di Pietro non
si dice che credette.
Qui si ferma l’annuncio della
resurrezione della Messa del giorno di Pasqua. Tutto ciò che la Chiesa
ci dice sulla Resurrezione e nella liturgia ci chiede di credere, ciò
che ci pone come dono della festa di Pasqua, è che fede e amore
incontrarono un sepolcro vuoto, e “video” ma non si capisce cosa.
I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa. Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva (vv 10 - 11)
Maria non se ne va: per prima cosa,
sta lì e piange. Ha in qualche modo il coraggio di dire il suo bisogno,
il suo dolore, la sua ferita aperta su questa tomba trovata vuota.
Spesso facciamo molta fatica a vivere l’esperienza di fede, perché non
abbiamo nessun desiderio, nessuna ferita, nessuna lacrima da versare.
Non osiamo, non abbiamo dentro di noi le parole per pensare che vorremmo
alcune cose. Non osiamo desiderare i miracoli, per esempio, non
chiediamo risurrezione. Lo stare di Maria accanto al sepolcro e
piangere, come un bambino, ostinarsi a voler in qualche modo ricavare
qualcosa da lì, se non altro per disperazione, questo non andare via, è
molto importante.
Lei ha il coraggio di estorcere a Dio
una risposta a qualsiasi costo. E’ uno degli aspetti che nella
educazione alla fede oggi manca molto. Si osa una domanda dentro un
amore, dentro una fiducia. Ci sono milioni di persone da cui non ci
attendiamo assolutamente nulla, perché sono totalmente indifferenti.
L’esperienza quotidiana della burocrazia è di questo tipo; anzi, ci si
aspetta un disastro, pur sapendo che teoricamente si avrebbero dei
diritti. Perché non si ha nessuna fiducia nei confronti della
burocrazia: non si osa nemmeno chiedere o far valere i propri diritti.
Quanto meno ci importa delle persone, tanto meno ci aspettiamo da loro.
Così, spesso, ci aspettiamo
pochissimo, in fondo, dalla fede. Ci aspettiamo speso molto da noi
stessi dentro la fede (mi impegno, faccio, miglioro, cresco), ma che
“Dio faccia Dio”, non ce lo aspettiamo quasi mai e questo è indice di
uno scarsissimo rapporto fiduciario con lui. Maria sta e piange, perchè
coltiva un’attesa su quel sepolcro: non si rassegna all’idea che sia
vuoto, nè all’idea che non stia succedendo niente.
Mentre piangeva, si chinò verso il
sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte
del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù (vv
11-12)
Le lacrime di Maria chiamano angeli.
Pietro e Giovanni non hanno visto angeli. Lei li vede perché piange,
chiede. I due angeli stanno nel luogo dove era stato posto Gesù. Il
cadavere non c’è, perché il Signore non è più morto, dunque il suo
desiderio non può essere esaudito. Ma al posto del cadavere le vengono
dati due angeli: la sua richiesta non è esaudita, perchè non ha trovato
il cadavere, ma viene ampiamente superata.
E’ il misterioso procedere della fede: “non esaudito” non vuole dire “non ascoltato”, nè “non accolto”.
Spesso nell’Antico Testamento i giusti
in difficoltà (Elia, Sara di Tobia..) pregano per chiedere la morte; il
testo dice che la loro preghiera viene accolta, e nel racconto che
segue accadono cose che danno loro una nuova vita. E’ lo strano modo di
Dio di prendere sul serio le richieste di chi ha fede in lui.
Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?" (v. 13)
Lo spazio della fede è spazio di
domande. Se non ci sono domande, non c’è spazio possibile. Il viandante
misterioso che incontra i due di Emmaus dice: “che sono questi discorsi
che state facendo fra voi durante il cammino?” (Lc 24, 17). Tutti gli
incontri di Gesù cominciano con una domanda, una richiesta, quindi anche
gli angeli chiedono: “perchè piangi?”. Le risposte possibili erano
molte, ma Maria dice: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo
hanno posto”. Non è così normale. Il racconto che ci viene offerto è
che Maria ha un unico pensiero: il corpo del Signore. Il suo desiderio è
talmente forte che non si stupiSce di niente, che non si interroga su
nient’altro: è la totalità assoluta del suo desiderio su questo risorto.
“Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”. Lei
non sa, noi non sappiamo.
Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. (v. 14)
Qui si continua a vedere e a non
sapere che cosa. Finalmente, dopo aver visto bende, sudari e angeli, si
vede Gesù. Visto Gesù, non si sa che è lui; e Gesù le dice: “Donna,
perchè piangi? Chi cerchi?”
Si riapre di nuovo lo spazio della domanda.
Essa, pensando che fosse il custode
del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove
lo hai posto ed io andrò a prenderlo». (v. 15)
Ancora la totalità di questo desiderio
che si esprime in quel «io andrò a prenderlo”. È mio! È la logica di un
assoluto legame. di una forza inaudita. E Gesù le disse: “Maria!” E
qui, dove ci aspetteremmo un bel verbo “vide”, dove ci aspetteremmo che
essa allora, voltatasi verso di lui, lo vedesse e lo riconoscesse,
nulla. “Essa allora, voltàtasi verso di lui, gli disse in ebraico:
«Rabbuni»”. Dove finalmente ci sarebbe Gesù da vedere, gli si parla.
Esattamente come nel racconto dei due di Emmaus: spezzò il pane,
scomparve alla loro vista e i loro occhi si aprirono e lo riconobbero.
Riescono a vederlo solo quando non c’è. Questo ci dice qualcosa su cosa
voglia dire riconoscere i segni della risurrezione nella nostra storia:
si vedono quando non ci sono, quando scompaiono. Fine del dialogo:
quando lui c’è, lui dice: «Maria» e lei risponde: “Maestro”. Punto,
finito. Non succede niente altro. Nessun colpo di bacchetta magica,
nessuna meraviglia, assolutamente nulla: è il puro riconoscimento. E lo
scambio di nomi propri, l’indicazione del puro riconoscimento: ci si
chiama per nome. Questo è l’esito finale del cristianesimo: chiamarsi
per nome, anzi, essere chiamati per nome da Gesù, resi alla pienezza di
noi stessi e della nostra identità.
Gesù le disse: «Non mi trattenere,
perché non sono ancora salito al Padre: ma va’ dai miei fratelli e dì
loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». (v.
17)
E’ strana questa parola, perché è
l’unica parola dura di tutto il testo. «Non mi trattenere», «Non volere
toccarmi». Dunque, non si tocca. E “non volere toccarmi” non è una
prescrizione su Gesù, perché in qualche modo non sia giusto toccarlo, ma
su Maria, sul suo desiderio: lei cercava un corpo e le viene detto: Non
è questo che devi cercare, non è un cadavere che devi trovare. Non
voler toccare. Cerca un’altra cosa. Ma Gesù, poco più oltre nello stesso
capitolo, si farà toccare da Tommaso: “Stendi la tua mano, e mettila
nel mio costato” (Gv 20,27). Qui la questione è il desiderio di Maria,
quello che lei cercava, cioè il cadavere di un morto. Gesù le sta
dicendo: Sono vivo, non mi toccare, sono un’altra cosa e non quello che
cercavi tu. Sempre per mettere un po’ in difficoltà il nostro giudizio
sugli esiti, sul riconoscere i segni della risurrezione.
Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: *Ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto. (v. 18)
Finalmente il verbo “vedere” assume un
complemento oggetto: “Ho visto il Signore”; si capisce cosa si vede. A
conclusione di questa riflessione, due questioni. La prima: che cosa ci
aspettiamo dalla nostra fede? Per dire che la fede ha funzionato nella
nostra esistenza, che non siamo stati ingannati da Dio, qual è l’esito
che ci attendiamo? Perché questo è il caso serio. Di per sé si chiama
“definizione teologica della salvezza”, cioè: che cosa pensiamo debba
succedere per sapere che il Signore ha mantenuto le sue promesse nella
nostra vita? Di solito facciamo la domanda opposta: che cosa devo fare
perché Dio mantenga le sue promesse? Invece mi pare che questo testo ci
inviti a chiederci quale sia l’esito che attendiamo, quale la
risurrezione che aspettiamo, confrontandola con l’offerta di Dio.
Proviamo a vedere se quello che ci aspettiamo è ciò che Dio offre o no.
La seconda questione: come si
riconoscono i segni di risurrezione intorno a noi? Come si riconosce la
croce lo sappiamo: non occorre fare tanto sforzo per trovare una ferita,
un dolore o un fratello a cui stare vicini. Ma dove e come si fa a
vedere la risurrezione? Si vede o non si vede, c’è o non c’è? Riguarda
la fine del mondo? Riguarda la morte? Riguarda la vita? Riguarda che
cosa? Da che parte sta?